24 marzo 2015

DARWIN – DILI

Lasciamo Darwin osservandola dall’alto, ne riconosciamo i parchi ed i pochi alti edifici della City, la vediamo bella ora mentre la sorvoliamo a bordo di un Air North Regional incastonata nel suo splendido contesto geografico in fondo alla penisola frastagliata di baie e circondata dal mare blu. Poi è stato sufficiente distogliere lo sguardo per essere già altrove, nel luogo che sappiamo essere completamente diverso. Timor EST, la bella isola di montagne appuntite sulla quale stiamo atterrando dopo soli 45 minuti di volo. Finalmente è il caos, una nuvola di persone in uscita e la guardia che chiama il taxi suggerendo il prezzo, 10 $ che per loro è quasi un furto, poi siamo in corsa verso il Timor Hotel il sorriso sulle labbra ed il piacere di sentirsi immersi nella vita, negli spazi troppo piccoli per quella che ora ci sembra una moltitudine di persone. Mentre procediamo sull’auto troppo usata e senza cinture nel traffico sostenuto lo sguardo si posa ovunque curioso, sui motorini incollati ai finestrini, sulla gente vivace e disordinata, dopo l’alienante vuoto di Darwin tutto qui sembra meraviglioso. Lasciate le valige nella camera del Timor andiamo con lo stesso tassista alla sede della compagnia di spedizioni TOLL, l’equivalente della ANL australiana, meno patinata ma più veloce, dove la porta si apre con il vento e la luce si stacca per il sovraccarico del condizionatore. Ruth è una giovane impiegata che sa fare il suo lavoro, ed in poche mosse ci fornisce modulo ed indirizzo della dogana che poi dopo un altro timbro ci rispedisce da lei. In pochi minuti il container arrivato qualche giorno fa viene sollevato dalla pila con una potente autogru ed appoggiato a pochi metri da noi. Il doganiere arriva e se ne va senza controllare, doveva solo assistere all’apertura dei sigilli ed alla corrispondenza del contenuto, quindi in un attimo Vanni fa uscire Asia ed io salgo accanto a lui. Tre quarti d’ora di tempo, 140 $ di spesa e siamo felicemente liberi finalmente di essere e di andare. C’è una ultima cosa da fare in realtà prima del blitz in città, dobbiamo andare a trovare suor Guglielmina presso il centro provinciale delle suore Canossiane dove lasceremo l’auto fino al nostro prossimo ritorno. Ci riceve con deferente cortesia nel salottino di uno degli edifici del complesso immerso nel parco, sa già cosa ci aspettiamo da Lei, ed è a sua volta in attesa di una richiesta formale alla quale dare risposta. Non è loquace, anzi lascia parlare noi che con la titubanza di chi non sa fin dove può spingersi nel raccontare si esprime con i freni leggermente tirati. Non è lei ad introdurre il motivo della nostra visita, è Vanni che infine arriva al dunque prima di sbagliare qualcosa, perché tutto dipende dall’approvazione di suor Guglielmina. Domani saremo suoi ospiti per il pranzo.

25 marzo 2015

DILI

Vanni ha già i biglietti in tasca quando si avvicina al mio cuscino con un sorriso e la tazza di tè appena preparato, ha deciso mentre dormivo di partire domani per Singapore. Poco dopo siamo con la torta al cioccolato e la bottiglia di vino Porto all’ingresso del refettorio delle suore Canossiane, Madre Guglielmina viene ad accoglierci e ci presenta alle altre sette sorelle che pranzeranno con noi. Sono simpaticissime e la conversazione decolla agevolata dalle tante cose che abbiamo tutti da raccontare, il vino aiuta così come la torta al cioccolato per non parlare del banchetto che hanno allestito per noi. Poi una ad una si dileguano, Guglielmina e la suora più giovane vanno in traghetto sulla vicina isola per prendere la suora malata, Vanni sta staccando le batterie …. ah ah di Asia ed anche la filippina sparisce, rimane con me solo l’anziana ma vispa sorella italiana, mi racconta con una certa nostalgia di quando era in missione sulle montagne di Timor, dei problemi legati alla gestione del centro che può accogliere fino a 140 suore, tutte presenti a Timor e del fatto che i giornali italiani non arrivano più per problemi postali e quindi non può aggiornare il diario che scriveva regolarmente per testimoniare ciò che accade nel panorama cattolico del centro nel quale lei vive e fuori da esso. Usciamo. Sono curiosa di vedere le vecchie case di Timor, quelle con il tetto che sale impennandosi dalla stretta pianta rettangolare, ma dopo un lungo giro in taxi rientriamo con un magro bottino… Solo due edifici pubblici, ma con i tetti ricostruiti di recente che non hanno il sapore di quelli originali che scopriamo essere a LOSPALOS sull’altro lato dell’isola, andremo la prossima volta… la certezza invece è che domani torneremo a Singapore, in lutto per la morte del vecchio presidente…. speriamo che non siano in lutto anche i giochi di luce nella baia del magnifico Marina Bay Resort.

26 marzo 2015

SINGAPORE

Il bilanciamento dei bagagli crea sempre qualche tensione in Vanni per l’inevitabile sovrappeso di fine viaggio…. ed ora che la reception gli ha prestato la specifica bilancia a mano che speriamo sia ben tarata i conti devono per forza tornare a costo di portare i due telefoni satellitari in tasca ed io il giubbetto di pelle gialla, legato in vita perché il caldo lo rende del tutto superfluo. Arriviamo in aeroporto a bordo del comodo taxi dell’hotel nel quale anche il lungo Didgeridoo trova la sua collocazione, poi al check-in scoppia un dissapore che non si risolverà nemmeno dopo le quattro ore di silenzio a bordo e dopo un breve passaggio al Pan Pacific Hotel di Singapore Vanni torna in aeroporto e riparte con il primo volo disponibile per l’Italia mentre io lo sto aspettando con un Singapore Sling sulle labbra accanto alla piscina. Serata in terrazza a scattare foto alla bellissima vista sulla Marina Bay.

27 marzo 2015

SINGAPORE

La mia giornata parte con calma poco dopo le undici dall’Elix Bridge, il DNA metallico che collega il quartiere dell’Hotel alla grande Piattaforma del Marina Bay Sands e con lei all’edificio scultura che ospita l’ ArtScience Museum. È bianco ma di notte questa stilizzata mano che sembra aprirsi assume il delicato colore lilla delle luci che ne illuminano la superficie opaca. La sua geometria è generata dalla rotazione di piatti spicchi di luna senza punte le cui diverse lunghezze creano un volume asimmetrico. Non ero entrata pentendomene due anni fa, vado ora spinta dalla curiosità di vedere se l”interno è coerente con i parametri estetici del contenitore. Non lo è, ma continuo sempre più rapidamente la visita della mostra che partendo dagli studi del nostro Da Vinci ne illustra l’evoluzione del potenziale nei secoli a seguire. Una volta uscita mi siedo sul bordo della vasca di ninfee e raccogliendo le idee penso ad un luogo dove andare che non sia, per quanto intrigante possa esserlo qui a Singapore, un deja-vu. Due anni fa avevo setacciato la città alla ricerca di sofisticate architetture contemporanee, ed ora i tanti cantieri qui nel centro sono la promessa di interessanti visite future, ma adesso? Essendo l’arte l’obiettivo di sempre nelle città dove tutto il resto sembra non esserci e non avendo interesse per le vetrine in fila lungo belle gallerie dedicate allo shopping estremo, torno al SAM che ospita una interessante mostra temporanea “medium at large”, poi sono di nuovo in taxi verso l’epicentro della città, Marina Bay…. ma questo pomeriggio mi riserva una sorpresa da scoop .. Passeggiando nel centro commerciale su Raffle Avenue l’occhio cade sulla vetrina di Kenko Wellness che inquadra tre vasche d’acqua rettangolari con decine di pesciolini attaccati ai piedi dei clienti …. entro. Seduta sul bordo della vasca immergo anch’io le gambe fino al polpaccio …. ed a stento mi trattengo dal non tirare fuori di scatto i piedi quando i pesci iniziano a rosicchiare tutta la pelle immersa eseguendo un perfetto Fish Pedicure. Al solletico segue un leggero fastidio e poi il piacere del micro massaggio che i pesciolini producono strisciando e mangiando con un appetito insaziabile. Una volta superato il primo step mi spostano nella vasca con i pesci più grandi e questa volta copro il viso con le mani e trattengo a stento l’urlo. Ma ci si abitua a tutto e sorseggiando il tè di rose lascio che i pesci facciano il loro dovere per un’altra mezz’ora a questo punto di puro piacere. È già sera quando mi ritrovo a passeggiare attorno alla piccola baia, osservando l’interminabile fila transennata di persone che si recano a rendere omaggio al defunto ex primo ministro nonché leader storico dello stato di Singapore, Lee Kuan Yew morto quattro giorni fa. Il tempo di attesa ha raggiunto le otto ore, alcuni hanno in mano mazzi di fiori, altri l’ombrello per ripararsi dal sole ed i militari che controllano la lunghissima fila distribuiscono bottiglie di acqua. Qualche foto ancora al “Pensatore” in bronzo di Rodin e poi di nuovo a casa per una meravigliosa cenetta sul terrazzino con mazzo di orchidee sul magnifico sfondo dei grattacieli illuminati della City, sul tavolo una pietanza indiana al curry, una crème brule’ ed un calice di Chardonnay Neozelandese.

28 marzo 2015

SINGAPORE

Il cielo nuvoloso non mi aiuta a trovare la voglia di uscire in strada e le 11 ore dedicate alla città di ieri mi salvano da possibili sensi di colpa. Inizio a lavorare a metà pomeriggio all’interno di una elegante galleria commerciale su tre piani marmorizzata e con effetti speciali, ovvero una cascata High-teck che cade da un ampio cono di vetro ed una lunga vasca di acqua con piccoli ponti che ne percorre longitudinalmente una parte. Sono a caccia di immagini per la prossima mostra dedicata al femminile. L’idea è di creare tra gli altri un grande pannello di vetrine, quelle così sofisticate da essere a tutti gli effetti opere d’arte che solo di recente ho iniziato ad osservare. Piccoli capolavori di fronte ai quali mi perdo indagandoli, cercando in quei colori, luci e forme quella parte di me stessa che sarà nell’immagine finale. Un’apnea che esclude tutto tranne che il soggetto che osservo e che dura almeno un paio d’ore. Ne esco esausta ma felice e con un bel bottino di JPG nella sim della mia Nikon. Fra poche ore si parte.

9 – 10 settembre 2015

BOLOGNA – PARIGI – ABU DHABI – SYDNEY – DARWIN

Le trentaquattro ore di volo con scali durati il tempo esatto dei rapidi spostamenti da un gate all’altro sono state l’esordio del nostro viaggio in Indonesia. In preda all’alienazione di chi vive a lungo al di fuori di una ragionevole dimensione spazio-temporale ci sembrava infine che tutto il nostro viaggio non fosse altro che volare con gli unici diversivi di avere terminato un bel libro, visti un paio di film, mangiato e dormito.
Infine, esauriti i quattro biglietti aerei a disposizione ed incapaci di raggiungere il desk di Quantas per acquistare l’eventuale quinto ed ultimo volo per Dili in Timor Leste, siamo atterrati sul comodo letto al Rydges Airport Resort di Darwin. L’avere ritrovato il riferimento temporale certo nelle due lancette dell’orologio a parete e la comoda posizione orizzontale sul materasso è stato per noi piacevole come indossare un termosifone nel gelo di una notte d’inverno e la decisione di fermarci un paio di giorni è arrivata senza avere avuto il tempo di concepirla, come un asso scivolato dalla manica e giocato a fine partita. Proprio non lo avremmo immaginato che a distanza di sei mesi avremmo rivisto la città nella quale nostro malgrado ci arenammo lasciando l’Australia. Dieci lunghi giorni di noia in attesa dell’imbarco di Asia per Dili. Ed ora siamo stranamente ancora a Darwin, divenuta a questo punto ed a tutti gli effetti la nostra città di frontiera, dove è impossibile non fermarci prima di ripartire.

11 settembre 2015

DARWIN

Il bagaglio non è arrivato e Vanni è isterico, senz’altro non per questo motivo dato il suo stile minimal. Comunque mi mangia la faccia e si allontana stizzito per il ritardo della mia traduzione dall’inglese. Vorrebbe trovare il modo di forzare la mano all’addetta ai bagagli che ci sta gentilmente esponendo il caso. Dice che non ci sono certezze circa il giorno e l’orario di arrivo delle nostre valigie e comunque se ne riparla alle due di questo pomeriggio.
Quando arrivo in Hotel trovo Vanni steso sul letto della 235 con l’espressione di chi sta per esplodere, ma non avendo voglia di discutere esco subito dalla camera, salgo sul primo taxi in attesa sotto la pensilina ed in venti minuti raggiungo il centro città. Percorro il Mall e mi spingo fino al mare, appena visibile oltre il molo che trattiene coccodrilli e squali al largo, lontani dai bagnanti. Guardando la piscina con l’effetto onde e la spiaggetta di sabbia riportata vicina al prato verde, capisco la gravità del problema e la drastica rinuncia a quella distesa di acqua blu. Darwin è una importante città portuale che si difende dalle insidie del suo mare inospitale così come si difendono dai nativi i suoi abitanti bianchi che vedo muoversi zigzagando sui marciapiedi per evitarne le questue. Hanno portato via loro la terra e con lei la dignità legata all’antica cultura aborigena, qualche dollaro potrebbero tutto sommato allungarglielo. Le strade ora sono quasi deserte e diafane per il caldo di questo mezzogiorno di fuoco, difficile immaginare un ingorgo o un assembramento di persone. L’energia che dà la vita è ora quasi impercettibile e non ci sono colori sotto la luce accecante di questo primo pomeriggio. Tutto ruota invece attorno al supermercato Woolworth dove molti si muovono attirati dall’aria condizionata e dal cibo come le api attorno all’alveare… vado anch’io, per ritrovare il battito del mio cuore di fronte alla vetrinetta freezer che contiene il mio gelato preferito, il Connaisseur da mezzo chilo. Quello australiano è uno dei migliori del mondo, ma io stoicamente resisto orientandomi piuttosto sulle creme sun block. Poi per non morire di noia salgo sul taxi fermo in Daly St. e dopo altri venti minuti vedo Vanni che con le valigie in fondo al letto abbozza un sorriso che subito svanisce. Giornataccia. E’ l’imbrunire quando raggiungiamo il ristorante Chair sull’Esplanade, il migliore opzionato lo scorso marzo. Rinunciando all’aria condizionata ci accomodiamo ad uno dei tavoli in giardino, sotto due grandi alberi dai quali non cadono foglie secche né i petali dei loro fiori bensì la cenere di un incendio lontano portata fin qui dalla brezza. Ci è servito un pò di tempo per associare ai brandelli di cenere il grande falò intravisto questa mattina vicino all’aeroporto. Nessuno però sembra notare lo strano fenomeno, tranne noi non avvezzi agli effetti della stagione secca, quando la vegetazione non può fare altro che bruciare.

11 settembre 2015

DARWIN

Il bagaglio non è arrivato e Vanni è isterico, senz’altro non per questo motivo dato il suo stile minimal. Comunque mi mangia la faccia e si allontana stizzito per il ritardo della mia traduzione dall’inglese. Vorrebbe trovare il modo di forzare la mano all’addetta ai bagagli che ci sta gentilmente esponendo il caso. Dice che non ci sono certezze circa il giorno e l’orario di arrivo delle nostre valigie e comunque se ne riparla alle due di questo pomeriggio.
Quando arrivo in Hotel trovo Vanni steso sul letto della 235 con l’espressione di chi sta per esplodere, ma non avendo voglia di discutere esco subito dalla camera, salgo sul primo taxi in attesa sotto la pensilina ed in venti minuti raggiungo il centro città. Percorro il Mall e mi spingo fino al mare, appena visibile oltre il molo che trattiene coccodrilli e squali al largo, lontani dai bagnanti. Guardando la piscina con l’effetto onde e la spiaggetta di sabbia riportata vicina al prato verde, capisco la gravità del problema e la drastica rinuncia a quella distesa di acqua blu. Darwin è una importante città portuale che si difende dalle insidie del suo mare inospitale così come si difendono dai nativi i suoi abitanti bianchi che vedo muoversi zigzagando sui marciapiedi per evitarne le questue. Hanno portato via loro la terra e con lei la dignità legata all’antica cultura aborigena, qualche dollaro potrebbero tutto sommato allungarglielo. Le strade ora sono quasi deserte e diafane per il caldo di questo mezzogiorno di fuoco, difficile immaginare un ingorgo o un assembramento di persone. L’energia che dà la vita è ora quasi impercettibile e non ci sono colori sotto la luce accecante di questo primo pomeriggio. Tutto ruota invece attorno al supermercato Woolworth dove molti si muovono attirati dall’aria condizionata e dal cibo come le api attorno all’alveare… vado anch’io, per ritrovare il battito del mio cuore di fronte alla vetrinetta freezer che contiene il mio gelato preferito, il Connaisseur da mezzo chilo. Quello australiano è uno dei migliori del mondo, ma io stoicamente resisto orientandomi piuttosto sulle creme sun block. Poi per non morire di noia salgo sul taxi fermo in Daly St. e dopo altri venti minuti vedo Vanni che con le valigie in fondo al letto abbozza un sorriso che subito svanisce. Giornataccia. E’ l’imbrunire quando raggiungiamo il ristorante Chair sull’Esplanade, il migliore opzionato lo scorso marzo. Rinunciando all’aria condizionata ci accomodiamo ad uno dei tavoli in giardino, sotto due grandi alberi dai quali non cadono foglie secche né i petali dei loro fiori bensì la cenere di un incendio lontano portata fin qui dalla brezza. Ci è servito un pò di tempo per associare ai brandelli di cenere il grande falò intravisto questa mattina vicino all’aeroporto. Nessuno però sembra notare lo strano fenomeno, tranne noi non avvezzi agli effetti della stagione secca, quando la vegetazione non può fare altro che bruciare.

13 settembre 2015

DARWIN – DILI

Un bell’abbraccio ha allontanato le tensioni e resa piacevole la serata di ieri al Nirvana, il locale eclettico nel quale siamo ritornati volentieri per la discreta musica live e l’ottima cucina indiana. Non sufficiente a risollevare il basso indice di gradimento della città di Darwin è con sollievo che ce ne stiamo allontanando, osservandola sparire dai finestrini dell’aereo di linea Airnorth diretto a Dili. Con l’energia dei nostri due sorrisi ci avviciniamo al meraviglioso caos di vita a colori della capitale di Timor Leste, l’isola che vediamo ora nell’interezza della sua forma allungata galleggiare sul blu del mare. Da questa prospettiva sembra una catena di meringhe ricoperte di vegetazione tropicale ora color ruggine. Atterriamo infine nel frastuono dei due motori turboelica accanto all’articolato piccolo edificio dell’aeroporto sul quale spiccano le tegole rosse dei tetti a pagoda, la luce accecante di questo mezzogiorno sembra infatti aver cancellato tutto il resto. L’effetto ottico si sovrappone alle distruzioni ed agli stermini avvenuti nel corso della lunga occupazione indonesiana. Sono trascorsi solo 13 anni dalla conquista dell’indipendenza eppure quando nel tardo pomeriggio passeggiando nel lungomare incontriamo chi per età quella guerra l’ha vissuta non vediamo le tracce di quella tragedia sui loro visi e la vivacità si esalta nei campetti da calcio lungo la spiaggia, nel rombo dei motorini che sfrecciano in strada, negli schiamazzi di quella generazione che sta crescendo in fretta come tutto in questa capitale sulla quale si sta investendo per ricostruire. La povertà è evidente ma discreta anche qui nel lungo giardino che si snoda parallelo alla riva, trasandato e sempre più in ombra. Seduti sulle panchine o accanto alle reti da pesca in spiaggia, raccolti ovunque in piccoli gruppi inondano lo spazio con i loro vestiti trasandati ed il vocio che accompagna gli incontri in questa domenica ormai agli sgoccioli. I venditori di pesce sono lungo i marciapiedi con l’invenduto appeso a grappoli sui due lati del bastone in equilibrio sulla spalla. Altrove la grande varietà di frutta ordinata e lucida sui banchi di assi di un mercatino. La sera scende ed i contorni si fanno deboli appena rischiarati dai pochi lampioni, dalle deboli lampadine dei chioschi che vendono cibo e dai fanali della moltitudine di motorini che sfilano anche solo per essere mostrati. Infine un meraviglioso crepuscolo viola si spegne di fronte all’hotel Timor nel quale entriamo attraversando l’ampio salone. Osservando perplessi la porta già aperta del ristorante che si affaccia su un lato ci chiediamo in quale localino verace mangeremo quel bel pesce venduto dagli ambulanti lungo la strada.

14 settembre 2015

DILI

Sono solo le otto del mattino quando Vanni dopo aver appoggiato la tazza di tè sul mio comodino inizia l’assillante azione di disturbo ripetendo come un mantra “svegliati è tardi”. E’ in fibrillazione per l’incontro di questa mattina con S. Guglielmina e la conseguente ripresa di possesso di Asia che individua non appena entrati attraverso il grande cancello del convento. In ombra sotto la tettoia accanto al breve sentiero che percorriamo per raggiungere l’edificio la osserviamo con il piacere di chi non vede l’ora di iniziare il lungo viaggio verso Jakarta attraverso l’Indonesia. Oltre la porta ognuno insegue i suoi obiettivi, Vanni alla ricerca della Provinciale Guglielmina ed io a raccogliere informazioni rivolgendomi alla giovane ragazza che ci ha accolti. Disposta a dare risposte ad una straniera curiosa in una lingua non sua ma che da brava cattolica praticante deve conoscere, le chiedo di aiutarmi ad individuare un percorso di esplorazione di Timor Est sulle tracce della guerra da poco terminata, in particolare dove posso trovare le croci nere viste in una fotografia pubblicata sul libro di Ennio Polito “ La strage infinita “. Quelle che raccolte in gruppi raccontano la fine di intere famiglie sterminate dai soldati Indonesiani, ma delle quali nemmeno lei sa nulla. S. Guglielmina mi raggiunge alle dieci, sorridente e felice di questa colazione condivisa. Parlare con lei è per me un grande piacere, accessibile e generosa nello scambio di opinioni, aperta anche a chi come me non ne condivide la fede ma ascolta con piacere i racconti di ciò che avvenne, la resistenza, le strategie di soccorso, la lunga marcia silente contro il regime, il pellegrinaggio fino alla cima della montagna più alta dell’isola per ergere una statua sacra ex voto. Finisco col sentirmi affascinata dalla forza e determinazione di questa donna, non a caso reggente di 139 suore missionarie a Timor Est. Vanni si inserisce per un momento nella colazione e poi torna rapidamente sui suoi passi continuando ad estrarre da Asia i reperti dei quali non conserviamo memoria. Lontana dalla pacata vivacità della domenica la città è oggi al massimo del suo dinamismo, attraversata da auto, dai minibus debordanti di ragazzi appesi e da centinaia di motorini trattenuti a malapena dai semafori rossi. Passeggiando lungo le brevi strade che allontanandosi dal mare si spingono all’interno verso la vicina periferia alla base della montagna incontriamo gruppi di studenti in divisa, costeggiamo canali di scolo pieni di rifiuti ed un mercato dove si vendono vestiti così impolverati da sembrare usati. Poco oltre, sul marciapiedi di terra battuta sostano alcune galline con la zampa legata ad uno stecco ed un ristorantino ad angolo si affaccia su un cortile di terra battuta. Le case qui si sviluppano ai lati di strade secondarie strette e polverose, dove la miseria sembra estrema ed i sono visi tirati.
Raggiungiamo il ristorante sulla spiaggia a bordo dell’unico taxi disponibile rintracciato telefonicamente dal portiere dell’Hotel. Sono le nove di sera e la città sta già dormendo come probabilmente il nostro autista arrivato evidentemente controvoglia ingolosito solo dai dieci dollari che siamo stati disposti a pagare per l’urgenza, il triplo della normale tariffa. I tavoli del ristorante sono disposti attorno alla cucina sotto la tettoia che dà sulla spiaggia, i piatti illustrati con immagini sono piuttosto invitanti ma escludendo il pollo preparato in tutte le possibili varianti ciò che rimane è la scelta di qualche pesce direttamente dal freezer, cucinato alla griglia ed accompagnato dal riso. E’ tardissimo quando ci viene portato il conto pronto da tempo ed alla sigaretta di Vanni le due cameriere rispondono con un leggero nervosismo e preoccupate di dover aspettare in eterno finiscono col chiederci con quale mezzo pensiamo di ritornare al Timor. Oltre la tettoia del ristorante infatti la città è deserta e nemmeno una luce rischiara il buio totale della notte, tantomeno quella dei fanali del taxi che non si è ripresentato all’appuntamento. Problema. Rientriamo gentilmente accompagnati dall’intero staff malese comprese le due cameriere ora sorridenti e sedute nel bagagliaio aperto.

15 settembre 2015

DILI – BAUCAU

Abilio è accanto a S. Guglielmina quando lo vediamo avvicinarsi lungo il vialetto che attraversa il giardino. Come d’accordo l’efficiente provinciale ha trovato la guida che ci indicherà la strada per Los Palos, il centro abitato che raccoglie i più interessanti esempi dell’architettura tradizionale di Timor Est, le Sacred Houses. Sorto nei territori di cultura animista che occupano la parte più orientale dell’isola il villaggio si trova tra l’altro vicino all’isola Il Cajo che per le informazioni raccolte dai locali sembra una promessa. Abilio ha trentatré anni che non dimostra, la pelle scura ed insegna uno strano inglese australiano. E’ timido ma non abbastanza da trattenersi dal commentare la nostra andatura, decisamente rilassata rispetto a quella frenetica dei velocissimi minibus che sfrecciano rischiando troppo. La strada che si snoda lungo la costa montuosa è stretta e disastrata. Sulla loro andatura si misurano le distanze, un’ora da Dili a Manatuto, un’ora da Manatuto a Baucau. Dodici ore da Dili a Sora, ci dice con gli occhi spalancati al pensiero di dover affrontare quel difficile spostamento del quale abbiamo chiesto solo per curiosità. Procediamo senza fretta lungo la litoranea sinuosa che si spinge per lunghi tratti all’interno, là dove la strada si inerpica allontanandosi dalle pareti verticali sul mare. Attraversiamo qualche piccolo villaggio di baracche, sfioriamo i prodotti in vendita appesi ai rami, facciamo slalom attorno alle buche ed ai cani stesi sull’asfalto, una bambina vestita di bianco tende una mano per avere qualcosa. Maiali neri attraversano la strada mentre gruppi di bufali pascolano nelle risaie ancora senz’acqua. Lontane dalla strada vediamo capanne di legno con i caratteristici tetti totemici , ma non sono ancora così appetibili da prendere in considerazione fermate a rischio e passeggiate tra stoppie acuminate quindi proseguiamo in sorpassi difficili e sfioramenti a rischio di scontro godendo in compenso del paesaggio che si apre ogni tanto in begli scorci sul mare e sulle montagne mosse in ampi calanchi. Ci accompagna il colore brunastro della vegetazione prosciugata dalla siccità della stagione secca che volge al termine. Poi, decisamente in ritardo rispetto alle due ore previste dalla tabella di marcia dei minibus per percorrere i 97 km, arriviamo a Baucau. E’ pomeriggio inoltrato quando dall’alto di un dosso scorgiamo la suggestiva distesa di lamiere che ancora riflette la luce del sole. Sono i tetti delle piccole case di legno aggrappate al terreno scosceso di questa povera periferia. Scendendo ancora la bidonville sfuma nella città dei pochi edifici pubblici, delle chiese e degli istituti religiosi che risaltano per i fuori scala e gli intonaci perfetti. Poi le strade si biforcano e noi ci perdiamo prima di arrivare dopo confuse indicazioni date dai ragazzini di strada sotto la scalinata della Posada Baucau, la più confortevole tra le poche sistemazioni disponibili in città. Dopo il tramonto, quando i pochi lampioni hanno resa ancora più invisibile la città i numerosi cani randagi hanno riempito la notte di disperati, strazianti latrati di guerra per il conteso cibo strappato ai rifiuti già poveri ….

16 settembre 2015

BAUCAU – LOS PALOS

Nonostante l’orario presupponga un comodo risveglio ci presentiamo all’appuntamento delle dieci con Abilio ancora assonnati e con l’umore che ci ha lasciato il sonno disturbato dagli inquietanti latrati di guerra dei cani randagi e presto interrotto dai rumori di lavori in corso nella Posada. Eppure la curiosità di esplorare il territorio in cerca de las Casas Sagradas ci è esplosa dentro e la partenza ha risollevato le palpebre e dato una discreta inaspettata energia. Los Palos si trova a 150 km di distanza da Baucau equivalenti a tre ore di viaggio dal parcheggio dove ci troviamo dice un signore avvicinatosi a Vanni per due chiacchiere ed un’occhiatina al motore di Asia. Percorrendo la strada devastata da buche profonde capiamo quanto il riferimento temporale sia più efficace nel rendere l’idea dell’ora di arrivo rispetto ai chilometri letti sulla mappa stradale che in questo caso ci avrebbero un po’ confuso le idee. In ogni caso abbiamo tutto il tempo che vogliamo per raggiungere Los Palos e l’isola ci offre paesaggi disseminati di indizi che raccontano la cultura e le tradizioni della regione più orientale di Timor Est. In quest’area lontana dalla capitale la vita si misura con la semplicità del forte legame con la natura e con i prodotti della terra. E’ questo che si legge osservando le poche casette di bambù con i caratteristici tetti di paglia, raccolte in piccoli gruppi a formare centri abitati quasi impercettibili. All’ombra degli alberi sulle bancarelle sono in vendita i prodotti locali, sotto altri tetti di paglia invece sui tavoli coperti da logore tovaglie di plastica alcuni offrono il cibo semplice ma gustoso preparato per il pranzo di oggi. Zuppe di pollo, verdure bollite, pesce fritto e l’immancabile riso lessato. Il blu del mare distrae dalla monotonia dei colori della vegetazione secca, mostrandosi solo in piccole baie ritagliate tra le mangrovie dove le canoe di legno dei pescatori sono ferme a pochi metri dalla riva. Sulle due fiancate dai colori scrostati i caratteristici bilancieri sono sorretti da lunghe aste di bambù, in primo piano invece centinaia di piccoli pesci sono stesi sulle reti ad essiccare. E’ già il primo pomeriggio quando i bambini in divisa tornano da scuola camminando sui bordi delle strade nei pressi dei villaggi. Alcuni schiamazzano ed agitano le mani per chiedere un passaggio, sono simpatici ed hanno dei meravigliosi sorrisi bianchi. Tra tutti gli animali che attraversano la strada i cani sono i più temerari rimanendo stesi sull’asfalto rovente fino all’ultimo momento, scheletriti per il poco cibo che sembrano trovare solo di rado. Infine vediamo alcune bellissime Casas Sagradas, sopraelevate su quattro pilastri di legno, sono i capolavori realizzati in seno alle comunità animiste legate al culto degli antenati. Le case con le gambe sono costruite con la collaborazione di tutti gli appartenenti al gruppo famigliare ed i materiali da costruzione, tutti reperiti in natura, vengono raccolti nei campi e nei boschi, tagliati, lavorati, scolpiti, dipinti e decorati con conchiglie e corna di bufalo. Diversamente da come immaginavamo sono utilizzate come case vere e proprie e non per celebrare riti animisti come pensavamo. Ne fotografo un paio tra le più belle rimandando a domani il reportage dettagliato. Nel frattempo il prof. come più semplicemente soprannominato da Vanni che non ne ricorda mai il nome, deve aver frainteso il nostro obiettivo di oggi, quindi senza saperlo andiamo oltre lasciando il bivio di Los Palos alle nostre spalle. Forse perché irresistibilmente attratto dal mare o forse semplicemente per reali problemi di comunicazione a causa del suo inglese-australiano con inflessioni portoghesi, sta di fatto che seguendo le sue indicazioni puntiamo inconsapevoli verso Capo Jaco. La bella isoletta famosa per la sabbia chiara che risalta sul mare turchese si trova sperduta sulla punta più orientale di Timor Leste, obiettivo senz’altro appetibile per il Prof. ma al momento non per noi che ci troviamo in breve lungo una pista stretta e sassosa dalla quale usciamo con una difficile inversione di rotta ed una tirata d’orecchie al prof. che non convinto ma rassegnato ci porta finalmente sulla strada giusta. Mimetizzata dalla vegetazione e povera di edifici, attraversiamo Los Palos senza quasi accorgerci di essere al suo interno. Pur sviluppandosi sulla strada l’occhio infatti non riesce a fissarsi su nulla, nemmeno sul cartello semi nascosto del Motel Roberto Carlos Los Palos che raggiungiamo accompagnati da un signore incontrato per strada, un ex militare anziano ed a corto di dollari. Immerso nel giardino che sembra un bosco il Motel è un crogiolo di professori stranieri che insegnano nelle scuole locali e di impiegati di associazioni occupate in programmi di supporto e sviluppo dei villaggi della regione. L’atmosfera è rilassata e complice, in fondo siamo tutti qui per confrontarci con una cultura che non ci appartiene. Chi come noi per la curiosità di conoscerla, altri per la necessità di aiutarla a crescere in modo sostenibile.

17 settembre 2015

LOS PALOS – BAUCAU

Partiamo dopo una bella colazione seguita al sonno piacevole e ristoratore nella cameretta dalle pareti verde acceso con piccoli decori blu elettrico dipinti a stencil. Come segugi sguinzagliati in cerca della preda percorriamo a ritroso la lunga deviazione che dalla cittadina di Los Palos si inserisce sulla strada principale, quella dove troveremo le Casas Sagradas. Ed ecco la prima, bellissima ergersi non lontana dalla strada. A palafitta su quattro robusti pilastri di legno alti circa tre metri e coronata dal bellissimo imponente tetto di paglia scura che la rende speciale, la casa è costituita da un unico vano e separata dal terreno dallo zoccolo di pietra e dalla piattaforma di legno sulla quale riposarsi all’ombra della casa soprastante. Di forma cubica la volumetria è definita da pareti alte circa due metri e mezzo costruite con struttura di legno tamponata da canne di bambù aperte e pressate fino a formare superfici piane. Vi accediamo salendo la scala a pioli fino alla botola aperta sul pavimento dell’unico vano di circa sette metri quadrati che sembra piccolo per ospitare una intera famiglia. I nostri piedi appoggiano cauti sul pavimento leggermente instabile dal quale la luce filtra tra i listelli di bambù consentendo una perfetta ventilazione naturale durante le caldissime estati. La mensola alta e profonda serve a contenere tutto ciò che serve alla famiglia che vi abita, parei tessuti a mano, vasellame e coperte. Questa però è completamente vuota. Contemplata ora con comodo dall’esterno osserviamo i dettagli della complicata struttura di legno dalla quale alcuni tronchi ed assi sporgono per mostrare i decori tradizionali scolpiti, intagliati e dipinti. Sono uccelli stilizzati, fiori, stelle, serpenti, arricciate corna di bufalo ed altri simboli del linguaggio iconografico animista che non riusciamo a decifrare. Il tetto è maestoso e si erge alto quasi quanto l’intera casa sottostante. Rastremato in alto non è semplice renderne l’idea a parole… se non attraverso l’immagine di due alte onde opposte che si uniscono assottigliandosi e poi terminano con un coronamento più scuro e decorato con conchiglie che rende in tetto ancora più slanciato. Quello che stiamo osservando è arricciato sui due lati lunghi come due corna. Andiamo ancora oltre per vedere un’altra particolarissima casa, anzi due collegate in alto da uno stretto ponte di legno ormai cadente. Il maschile ed il femminile uniti ma separati come da tradizione locale. Bellissima per questa sua caratteristica la doppia costruzione conquista così tanto Vanni da volerne immortalare l’immagine con Asia nello spazio esiguo tra le due case, inserita a costo del rischio di demolire o quella del re o quella della regina o entrambe. Rientrando vediamo un’altra bellissima casa sacra stagliarsi sullo sfondo del mare turchese, una meraviglia che ha reso indimenticabile il safari di oggi nel cuore della regione animista timorense.

18 settembre 2015

BAUCAU – DILI

Se come dice il Prof. le piume di gallo e le corna di bufalo non vengono utilizzati per celebrare i riti sacri lo sono senz’altro per decorare le tombe di appartenenti a famiglie animiste, rese tanto particolari da meritare la sosta nel cimitero oltre la strada tra la boscaglia. Il Prof. costretto da Vanni mi segue come un’ombra tra i rovi e le tombe disposte disordinatamente sul terreno scosceso. Non ho mai trovato triste o tetro camminare tra le tombe dei cimiteri ed anzi ne ho sempre percepito la quiete profonda apprezzando anche la cultura che vi si esprime sempre diversa nelle forme e negli stili propri delle aree geografiche del mondo nelle quale si trovano. Ed anche ora, sotto il sole a picco che surriscalda ed acceca mi trovo immersa nella complessa cultura di questa Timor sospesa tra animismo e cristianesimo, tra croci e corna, ossa e ceri mescolati in una strana, suggestiva scenografia. Rivestite di piastrelle lucide e colorate o semplicemente lasciate a calce ciò che più colpisce di queste tombe scatolari è ciò che sovrastandole stabilisce il grado di importanza di chi le occupa. La quantità di teschi cornuti impilati nei bastoni sopra le tombe indica infatti il livello sociale raggiunto dai defunti nell’ambito della gerarchia tribale di appartenenza e le vicine onnipresenti croci di legno sottolineano l’armonia che unisce le due religioni nel reciproco rispetto. Il mare azzurro sullo sfondo ci riporta in fretta alla dimensione dell’isola ed alla concretezza del nostro viaggio che è vita in movimento. La sosta che Vanni propone dopo un numero imprecisato di chilometri ci riporta alle radici della cultura animista delle case sacre. Interessato al processo di produzione più che al prodotto finito devia all’improvviso e spegne il motore accanto ad un ragazzo ed al fucile appoggiato all’albero vicino. Siamo entrati nel cantiere dove si sta costruendo una casa tradizionale. Intenti a scortecciare a colpi di machete i tronchi che saranno inseriti nella struttura solo abbozzata i manovali non sembrano interessati a noi, indifferenti alla nostra curiosità ad eccezione del ragazzo che imbracciando il fucile lo punta ad angolo retto rispetto a noi. Una sorta di gesto simbolico che non impressiona ma che fa capire senza ombra di dubbio che la nostra presenza non è gradita. Ma Vanni non si da per vinto e senza dare al gesto la dovuta importanza poco dopo è già in confidenza con il vice del responsabile del cantiere stranamente disponibile a spiegarci come proseguiranno i lavori. Il Prof. traduce dal portoghese al suo come sempre incomprensibile inglese. Capiamo poco o nulla ma non ci sfugge lo sforzo che a costruzione ultimata dovranno affrontare i quaranta uomini per spostare i cinquanta quintali della costruzione finita. Dato che i locali tendono ad esagerare con i dettagli immaginiamo che quella casa non si muoverà da dove si trova ora. Arriviamo a Dili a metà pomeriggio decisamente provati. Vanni per lo stress della guida ed io che per via della guida a destra mi trovo sempre al centro della strada, per aver visto la morte in faccia ad ogni sfioramento e ad ogni frontale per poco evitato. Polso destro quasi slogato per la forza con la quale stringevo la maniglia sopra lo sportello e maglietta appiccicata al busto. E’ in questo deplorevole stato che facciamo il nostro ingresso alla 2036 del Novo Turismo Hotel, dopo tre ore di viaggio e novanta chilometri percorsi.


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