13 Camerun


21 Gennaio 2009

MAIDUGURI – MAROUA

E’ un gentilissimo ragazzo del Chad ad accompagnarci fuori città sulla strada che porta a Bama. Conosce bene questo tragitto, dato che si sposta periodicamente tra il Chad e Maiduguri dove frequenta l’università, ed ha il grande pregio di parlare francese. Proseguiamo soli sulla strada verso Bama, poi deviamo a sinistra diretti alla frontiera non segnalata da cartelli….come se non esistesse…..qui in Nigeria o sai la strada o chiedi informazioni sperando che ti capiscano! L’asfalto si trasforma presto in un susseguirsi di immense buche sulle quali si procede come sulle montagne russe, fino a costringerci ad abbandonarla definitivamente preferendo in alternativa la pista nella brousse. Insomma impieghiamo più tempo del necessario per raggiungere il vicino posto di frontiera in corrispondenza del villaggio di Banki dove ci perdiamo infilandoci nell’affollato mercato. In questo paese che sembra un girone dell’inferno pieno com’è di baracche fatiscenti, bambini seminudi e adulti che si muovono fissando il vuoto davanti ai loro occhi vestiti dei loro caffettani lunghi e luridi, non c’è nessun cartello a segnalare la direzione della frontiera. Quando finalmente raggiungiamo l’agognata barra di metallo su di una stradina polverosa e piena di rifiuti, vediamo finalmente il cartello che nei colori della bandiera nigeriana indica il border…..pochi metri dopo, su un altro cartello leggiamo Camerun frontière. Vanni aspetta all’ombra di un albero mentre io rimango intrappolata almeno un’ora nell’ufficio di polizia a causa della burocrazia e dell’inefficacia degli impiegati. Col caldo che fa mi fanno compilare tre volte i moduli con i nostri dati…..se almeno fossero un pò più svegli! Invece sembrano gareggiare in ottusità e lentezza…..poco ci manca che leggano il passaporto capovolto. Finalmente liberi dalla trappola raggiungiamo la vicinissima gendarmerie camerunese dove confesso di non avere i visti di ingresso. L’impiegato, in questo caso sveglio e disponibile, riempie un fogliettino scritto a mano e me lo consegna dicendo di esibirlo a Maroua, quando la polizia ci fermerà per i controlli di rito. Dopo un centinaio di chilometri di strada terrificante, con qualche puntatina fuori strada per evitare l’altalena dell’asfalto, ecco lo stop della polizia. Visto il livello piuttosto basso di acume dei poliziotti bariamo anche sull’assicurazione che con un paio di foglietti staccati sembra essere valida anche per il Camerun…..nessuno se ne accorge. Raggiungiamo Maroua nel tardo pomeriggio….anche oggi tanto tempo per fare pochi chilometri….ma ormai siamo rassegnati, le strade del Camerun sono tutte in pessime condizioni. Dopo aver dato un’occhiata all’ ”Hotel du Sahel” in parziale restauro, ed un pò sacrificato attorno a quel giardinetto punteggiato di brutte poltroncine, decidiamo che di restauri ne abbiamo già avuto abbastanza con quello di ieri e così andiamo al Mizao, nella periferia della città, che invece ci fa una buona impressione e che scegliamo come nostra sede. Maroua è una città di pianura piuttosto scassata rispetto alle ultime viste in Nigeria, ma piacevolissima per i viali alberati che la attraversano e per il fiume ora completamente prosciugato, ma che si riempirà nella stagione delle piogge, dopo giugno. Nonostante non si veda un filo d’acqua, alcune donne hanno scavato dei buchi profondi nel letto sabbioso e vi sono immerse a fare il bucato….spuntano solo le teste coperte dai foulard colorati annodati in fiocchi vistosi. Arrivando avevamo visto ergersi in lontananza qualche monte isolato, circondato da campi di sorgo ancora verde. Deve essere incantevole il paesaggio attorno alla città se solo potessimo vederlo senza la foschia dell’Harmattan. E’ Vanni che va alla reception per prendere informazioni sulle case ad obice che sappiamo esistere qui attorno…. da qualche parte. La guida non ne parla, ma il depliant dell’agenzia viaggi italiana Harmattan ne sottolinea l’originalità e lo include nell’itinerario del viaggio in Camerun…..come resistere? Ormai siamo diventati gli esperti delle tipologie primitive dell’Africa Occidentale e comunque piuttosto che rimanere delusi dalla visita di un altro parco, il Waza, senza animali, preferiamo senz’altro visitare le case ad obice…..uniche nel loro genere. Le vediamo fotografate sulla brochure dell’hotel….sono le ultime rimaste a Mousgoum. Dopo mezz’ora arriva il simpatico ed energico Deli Garanti, una guida che lavora con i tour operator italiani Kel 12 ed Harmattan e che per questo rappresenta la persona ideale con la quale andare. Concordiamo il tour per domani, dopo aver preso i visti all’ufficio immigrazione di Maroua. Ceniamo bene in hotel, coccolati dal personale molto gentile del ristorante.

22 Gennaio 2009

MAROUA – POUSS – MAROUA

All’ufficio immigrazione, che raggiungiamo in compagnia di Garanti, dobbiamo sorbirci la ramanzina del signor Louis Tokatohou che in malo modo ci chiede perché non abbiamo preso il visto in Italia, così come abbiamo fatto con quello del Mali…..una paternale così pesante la mattina presto ci fa proprio spazientire ed è solo il bisogno dei visti che ci trattiene dal mandarlo a quel paese e ci fa stringere i denti sopportando la piccola rivincita che il signor Louis ha avuto l’opportunità di prendersi oggi nei confronti di due individui bianchi, due nasaire, come ci chiamano qui. Oltre alla paternale, dobbiamo anche sganciare 108.000 cfa, circa 160 €, che è pur sempre una bella cifretta, raggiungere al distaccato ufficio delle finanze, l’addetto munito di macchina per il timbro, e poi tornare nuovamente all’ufficio immigrazione per avere la firma del signor Louis. Infine partiamo, deviando sulla strada sterrata che puntando verso Est ci consentirà di raggiungere il villaggio di Bogo e da lì Guivier attraverso un breve tratto di asfalto sfuggito alle ruberie del ministro dei trasporti che ha la sua residenza proprio là dove l’asfalto finisce…..la corruzione del Camerun è leggendaria dice Garanti. Ancora una ventina di chilometri di sterrata ed arriviamo a Maga, il villaggio che si affaccia sul lago artificiale omonimo , ora divenuto un fiorente centro di pesca e di vendita del famoso pesce capitaine oltre che di carpe. Ai bordi della strada gruppi di persone svolgono alcune attività legate alla pesca…..seduti a terra alcuni signori lavorano nuvole di sottile filo bianco. Erroneamente pensavamo si trattasse di enormi ragnatele appoggiate ai rami più bassi degli alberi. Altri riparano le piroghe di alluminio. La vendita del pesce è riservata alle donne…le vediamo lungo la strada principale del villaggio trasportare il pesce appena pulito delle squame su carretti di legno. Altre invece fanno il bucato nell’acqua bassa vicina alla riva. Indumenti colorati sono stesi un pò ovunque ad asciugare, poco oltre un paio di tettoie costruite accanto al bagnasciuga segnano i punti della vendita e della preparazione del pesce. Dopo la breve sosta proseguiamo sulla sterrata costeggiando per una quindicina di chilometri la diga di terra che contiene il bacino d’acqua, quando la diga finisce siamo arrivati a Pouss. Saliamo sull’argine per dare una sbirciatina al fiume Logone che segna il confine naturale con il Chad…..ed è come sempre un fermento di attività legate al bucato ed al gioco dei bambini già grandi, quelli più piccoli se ne stanno legati alle schiene delle loro madri al lavoro. Alcuni aironi bianchi beccano qualcosa tra la melma sui bordi delle isolette verdi che vediamo emergere dall’acqua lenta e limacciosa del fiume. Infine eccole, semi nascoste dalle fronde dei grandi alberi che le circondano, le belle case ad obice di Mourla, il piccolo villaggio attiguo a Pouss. Sono cinque, altissime, grigie e dalla superficie esterna lavorata a rilievo in geometrie di terra che funzionano come appoggi per salire a fare la necessaria manutenzione dell’intonaco di banco. Le cinque costruzioni ad obice sono raccordate da un muretto, tutto colorato e dipinto con figure, che definisce l’ambito della concessione, ovvero l’area di pertinenza della famiglia che abita quelle case. Entriamo nell’ampia corte e da lì alla casa della seconda moglie. L’apertura attraverso la quale accediamo ha la forma simbolica di uno scudo, così come la porta fatta di canne leggere. All’interno l’ambiente a pianta circolare è quasi privo di oggetti, tutta l’attenzione è rivolta alla volumetria slanciata dell’edificio a cupola che rastremandosi si conclude in alto con un foro circolare….una presa d’aria e di luce, l’unica oltre alla porta d’ingresso. Una paretina trasversale costruita accanto alla porta separa l’ingresso dal luogo nel quale dorme la signora, in cima al muro sono fissati tre piccoli contenitori d’argilla che servono a contenere i suoi gioielli. Un basso muretto corre parallelo al perimetro a segnare la fascia dove dormono gli animali. Infine un paio di corna sono state inserite nel muro perimetrale, in alto. Servono a proteggere i neonati. Entriamo poi anche nelle altre case del tutto analoghe a quella già visitata….la cucina, la casa del marito e la casa della prima moglie, l’unica che ha accesso diretto alla casa del tesoro, attraverso un breve corridoio di collegamento. Così come gli esterni sono caratterizzati da elementi geometrici a rilievo che si ripetono su tutta la superficie muraria, gli interni sono decorati con disegni colorati in leggero rilievo sui contorni. Sono i simboli della difesa dagli aggressori, come lo scudo e la lancia, oppure i simboli della ricchezza che arriva dalla terra, come i cerchi concentrici a indicare i fiocchi di cotone o le figure di animali e le scene di pesca. Il granaio è piccolo, colorato e posto al centro della corte. Quando chiediamo perché le case sono tanto alte…..5 o 6 metri rappresentano una bella altezza per case di fango ad un solo piano…..ci viene risposto che l’antico popolo Sao che arrivò qui dal Niger e si insediò costruendo questo tipo di case, era formato da individui altissimi. Discendenti dei Sao sono i Mousgoum, l’attuale popolazione che sfoggia una statura considerevole ….come questo custode che ci ha accompagnati nella visita. La tradizione costruttiva ereditata dai Mousgoum sta scomparendo per via dei lunghi tempi di realizzazione , cinque o sei mesi, e di manutenzione di queste belle case…..Sono quindi sempre meno gli edifici ad ogiva costruiti qui a Mourla. Felicissimi di aver visto queste straordinarie costruzioni, torniamo verso Pouss, ovvero il Sultanato di Pouss, dove ci fermiamo a vedere l’esterno della grande Maison du Chef, circondata da un alto muro dipinto nei pigmenti naturali come il rosso, il nero ed il bianco che poco dopo vediamo usati da un gruppetto di donne intente a colorare i muri esterni delle loro case. Raggiungiamo di nuovo Maga percorrendo questa volta la strada che attraversa le risaie molto estese che si sviluppano dietro i villaggi. Un complesso reticolo di canali e di chiuse alimentano i campi con l’acqua del lago artificiale che li rende ora di un verde brillante. Ci fermiamo ad acquistare un pò di pesce per Garanti dalla più gentile delle venditrici….le altre, vedendolo con noi, volevano a tutti i costi affibbiargli un prezzo da bianchi anche se il pesce era per lui…..così ha potuto sentire il peso della discriminazione razziale! Alle cinque del pomeriggio siamo già in hotel, stanchi più per le buche della strada e per il caldo che per la piacevole visita. Più tardi la cena si colora delle mimetiche dei militari al seguito del segretario del primo ministro in missione qui a Maroua. Un grande tavolo a ferro di cavallo è religiosamente predisposto, per il segretario ed i collaboratori, dai camerieri che vi ronzano attorno come api. Sfilano davanti al buffet in ordine di importanza, uno di loro ci fa sorridere….non si separa mai dalla valigetta che appoggia a terra solo per il tempo necessario a riempire il suo piatto….conterrà senz’altro dei soldi. I militari si servono per ultimi….arrivano con i kalashnikov e gli M16 a tracolla, ma almeno senza elmetto, poi mangiano nei tavolini attorno alla piscina.

23 Gennaio 2009

MAROUA – ROUMSIKI

Mi sveglio con calma dopo aver consumato tutti i miei sogni, ma all’arrivo di Vanni sono  pronta. Garanti oggi siede sul sedile posteriore per lasciarmi ammirare il paesaggio montuoso che caratterizza il territorio compreso tra Maroua e Garoua, in prossimità del confine con la Nigeria. I Monti Mandara, così si chiama la catena montuosa, si articolano in pittoreschi picchi rocciosi che diventano addirittura superbi in corrispondenza di Roumsiki  dove siamo diretti. Nei pressi della cittadina di Imokolo, ancora lontani dall’obiettivo, Gazelle dà di nuovo segni di cedimento proponendoci l’inconfondibile rumore…… un’altra cinghia si è rotta. Vanni entra in visibile sconforto….come non capirlo….ma Garanti ci accompagna in una officina dove in poco più di un’ora la cinghia viene sostituita con un’altra ancora non originale e troppo piccola, ma l’unica che il mercato può offrirci. Quando ripartiamo la strada diventa sterrata ed in cattive condizioni, ma le montagne iniziano ad apparire all’orizzonte. Al mutamento del paesaggio corrisponde un diverso materiale costruttivo impiegato nella realizzazione delle unità abitative. Così nei villaggi di collina le capanne circolari hanno file di pietre a formare il muro perimetrale, anziché il banco visto finora, o addirittura a costituire la struttura del muro rettilineo che definisce la concessione e contiene le diverse unità. I tetti di paglia sono sempre più appuntiti e, ci spiega Garanti, ad ogni casa circolare corrisponde una moglie. Il loro numero non ha limiti nella cultura Mafa, ed alcuni uomini ne hanno più di 10 e di conseguenza anche il numero dei figli può salire oltre i 100.  Poco prima di arrivare a Roumsiki, la nostra guida, che ieri sera aveva garantito che in 4 ore saremmo arrivati a Garoua, comprese le soste per le visite e qualche foto, ora ci comunica che per via di quella sosta di poco più di un’ora spesa per la riparazione di Gazelle, non potremo raggiungere Garoua prima del calare della sera ed è altamente sconsigliato viaggiare con il buio nella brousse….quindi dovremo fermarci a dormire al Campement di Roumsiki, la sua città natale. Considerando che abbiamo già viaggiato per due ore e che sono le 14.30 quando arriviamo a Roumsiki…..ci sembra strano non poter raggiungere Garoua in tempo. Ma ora Garanti dice che servono quattro ore per raggiungere l’obiettivo finale da qui….un errore di valutazione….o una piccola bugia per costringerci a sostare in questo magnifico luogo? Il Campement è costituito da casette circolari in muratura ed ha una magnifica piscina che sembra protendersi verso il vuoto della vallata sottostante. Sui due fianchi della valle che si perde di fronte a noi, sono i picchi rocciosi, uno dei quali è così perfetto da sembrare uscito da una favola, o meglio da un dipinto inglese dell’ ‘800 concepito ad evocare il sublime in natura. Guardandolo mi tornano alla mente il famoso dipinto di Bocklin,  “l’isola dei morti” del 1880 e un paio di immagini del film “il signore degli anelli”. Strepitoso! Chissà come sarebbe godibile la vista con l’aria tersa di febbraio e marzo…..invece oggi la polvere dell’harmattan se da un lato dà una connotazione di mistero al paesaggio già estremamente pittoresco, dall’altro ci toglie il piacere di poterlo vedere distintamente, in tutta la sua interezza. Dopo aver contemplato a lungo, Garanti ci porta a vedere una delle case tradizionali Kapsiki. Si tratta della più bella….ovvero la residenza dello chef spirituale della comunità che vediamo alle prese con la preparazione di una pagnotta di tabacco. Ha 78 anni ma ne dimostra 100 questo capo spirituale, ed ha una moglie, la più giovane, che ne ha appena 28. Che schifo! Uno dei tanti casi di pedofilia legittimata dalle tradizioni maschiliste africane. Oggi poi impariamo un’altra cosa agghiacciante relativa alle donne africane….. quando le mogli divenute anziane non rappresentano più una tentazione sessuale per i loro mariti, vengono allontanate dalla casa che le ha viste mogli e madri. Se avranno la fortuna di essere ospitate dai loro figli maschi sopravviveranno, altrimenti saranno destinate a vivere mendicando lungo le strade dei villaggi. Ogni moglie del capo spirituale ha all’interno della concessione un suo spazio delimitato da un muretto nel quale trovano posto 4 piccoli edifici….il granaio, la camera dove dorme con i figli piccoli, il pollaio e la cucina. La moglie di turno a cucinare, prepara per tutta la famiglia ed è sempre lei che la notte stessa andrà a trovare il marito per un pò di sesso. Insomma il ménage familiare è gestito con turni di lavoro piuttosto rigidi. All’ingresso della concessione uno spazio ampio coperto da tettoia è riservato all’accoglienza degli ospiti  ed alla benedizione delle ragazze che si sposeranno o dei ragazzi che tornano dalla brousse dopo i tre mesi di iniziazione. Allora i cinque vecchi capi del villaggio siederanno su un lato, attorno ad un sedile circolare, e le signore più anziane sull’altro lato, accanto al focolare dove staranno cucinando la birra di miglio. I cinque saggi riempiranno la bocca di miglio e la sputeranno sulle ragazze in segno di benedizione. Quando usciamo dalla sua concessione, il capo del villaggio è ancora lì fuori a cospargere di una viscida bava vegetale le pagnotte del tabacco che potrà essere poi fiutato o masticato…..altro schifo disumano. Scendiamo ancora un pò verso valle per andare a visitare un altro dei cinque potenti del luogo….il feticheur ovvero colui che in questo caso specifico legge il futuro con i granchi. Garanti ci spiega che il feticheur mette della sabbia sul fondo di una giara di argilla, poi versa l’acqua, vi lascia cadere qualche sassolino ed un granchio. Chiude e dopo un paio di minuti riapre e legge sul fondo il risultato dell’oracolo.  Ma la sua competenza non si limita a questo, lui è anche un guaritore, ed alcuni arrivano anche dalla Nigeria per sottoporsi alle sue cure. Potrebbe essere ricco, ma preferisce provvedere con i suoi lauti guadagni, al sostentamento degli orfani e delle anziane signore abbandonate a se stesse…..che buon uomo!…..sembra andare in controtendenza rispetto al livello medio del maschio africano. Sempre con il picco roccioso ben visibile da ogni angolo del paese, continuiamo la visita camminando sulle stradine di terra battuta…..è un bel posto questo Roumsiki. Quando verso le 16.30 rientriamo in hotel ci concediamo una birretta di fronte alla magica vista della vallata e poi le nostre coccole sul letto cigolante del nostro bungalow con vista.  All’imbrunire il vento incalza e nel bungalow sembra di essere in cima a quella rupe che vediamo di fronte a noi. Siamo a 1000 metri di quota ed il vento non è certo caldo….un pò come essere nelle nostre montagne in piena estate. Quando raggiungo Vanni per la cena nell’edificio che contiene il ristorante, mi accoglie subito con una notizia fresca di telegiornale…..sul confine tra Niger e Mali, a pochi chilometri dall’Adrar des Inforhas, sono stati rapiti quattro turisti europei, due tedeschi, uno svizzero ed un inglese. Poco più di un mese fa avremmo potuto essere noi i rapiti!

24 Gennaio 2009

ROUMSIKI – NGAOUNDERÈ

Percorriamo i primi 80 km saltando tra i buchi della strada sterrata che si snoda tra il paesaggio collinare dei Monti Mandara. Ciò che percepiamo dei villaggi che incrociamo è la vivacità rilassata tipica di queste latitudini, oltre agli elementi estetici già visti altrove nelle varianti minime delle diverse aree geografiche. Dopo i buchi arriva l’asfalto perfettamente liscio della strada che prosegue fino a Garoua…..sembra un sogno dopo tutti quei sobbalzi! Ci congediamo da Deli Garanti ( 00237 96273751- garantideli@yahoo.fr ) al distributore che troviamo sulla strada diretta a Ngaounderé….siamo molto contenti di lui anche se il suo senso del tempo relativo ai nostri trasferimenti non coincide con quello dei nostri orologi e la sua ipotesi di coprire in quattro ore la distanza tra Maroua e Garoua via Roumsiki si è rivelata sbagliata di più di due ore. Durante le nostre chiacchierate con lui nel corso del viaggio abbiamo scoperto cose incredibili…..per esempio che questi camerunesi delle montagne pensano che i bianchi non lavorino e che trovino il denaro non si sa dove….credono anche che i “nasaire” passino il loro tempo viaggiando e facendo un numero spropositato di inutili docce. Quando un camerunese viene scoperto a dormire durante il giorno, lo si rimprovera dicendogli – smettila di fare il bianco! – Garanti è sconvolto quanto noi da questa distorta valutazione dei nostri costumi e della nostra economia la cui fortuna per loro deve essere legata ad una qualche stregoneria. Lasciamo Garanti con il proposito di assoldarlo per il proseguimento della nostra esplorazione del Camerun quando torneremo un giorno imprecisato. Proseguiamo soli e per l’occasione accendo il nostro Garmin in sostituzione alla nostra guida in carne ed ossa. Siamo ancora a 500 metri di altitudine ed attraversiamo la brousse rigogliosa di vegetazione e di animali….dato che un gruppo di babbuini attraversa la strada davanti alla nostra Gazelle. I tetti delle capanne di fango, sempre più a punta sembrano ora tanti cappelli di streghe. Una cinquantina di chilometri prima di arrivare a Ngaounderé la strada inizia a serpeggiare seguendo le curve naturali della falesia e poi con tornanti che ci porteranno in breve a quota 1200 metri, per poi ridiscendere ai 1000 metri della città che raggiungiamo, come previsto dal nostro Garmin, alle 16.30. Nella città che si sviluppa sui rilievi delle colline cerchiamo invano l’hotel Rail consigliatoci da Garanti….ma deve aver cambiato gestione e nome, così, dopo una mezz’ora di inutili andirivieni sulle strade scassate della città ripieghiamo sull’Hotel Transcamp che la guida giudica il migliore e che effettivamente ha un bell’aspetto. dai rubinetti del nostro bagno però non esce che un filo di acqua gelida che presto sparisce definitivamente. Le lamentele partoriscono come risultato un bel secchio d’acqua fredda recapitato in camera ed un numero incalcolabile di scuse. Quando poi alle 19 scendiamo per la cena, ci viene detto che tutti i tavoli del ristorante sono prenotati e che dovremmo cenare in camera dove ci vengono portati un tavolino mignon e due sedie….ma le pietanze non sono male. I dolori veri arriveranno domani quando dovremo affrontare una strada di montagna talmente malmessa che per percorrere i suoi 396 km fino a Banyo sono previste 10 ore di viaggio…..ed una volta arrivati a destinazione dovremo dormire in una topaia , ammesso di trovarne una disponibile.

25 Gennaio 2009

NGAOUNDERE’ – BERTOUA

Rassegnati alla giornatina che ci aspetta ci svegliamo prestissimo per una bella doccia che ora funziona e per la partenza nella prospettiva di un lungo viaggio verso Sud. All’ultimo momento prendiamo la decisione di percorrere l’altra strada….quella che scende a Garoua Boulai costeggiando in parte il confine con la Repubblica del Centro Africa. Nonostante gli atti di brigantaggio segnalati proprio nel tratto di strada lungo il confine, ad opera della polizia, la scelta è senz’altro migliore della prima opzionata…. Secondo il parere di un paio di persone sentite da Vanni al proposito, la strada che da Garoua Boulai scende fino a Bertoua dovrebbe essere asfaltata. Partiamo tra i gruppi di ragazzi che già alle 7.30 del mattino si allenano correndo per le strade, immersi nella leggera nebbiolina che segue l’alba. Ci congediamo così da questa cittadina che non abbiamo visto ma che non ha nulla da offrire più di una camera in un hotel di passaggio…..con essa ci congediamo anche dall’asfalto ed iniziamo a traballare sulla strada rossa di terra che ci terrà impegnati per due ore nei primi 50 km con qualche buca ma tutto sommato accettabili. Mentre saliamo sulla catena dei Monti Adamawa incontriamo solo qualche taxi brousse e diversi camion in transito o finiti fuori strada e diversi villaggi alcuni dei quali animati dai mercati della domenica o altri nei quali le signore appena uscite dalla chiesa indossano i loro abiti puliti e di particolare eleganza. Raggiungiamo i 1300 metri di altitudine per poi scendere di nuovo assestandoci sui 1000 metri più o meno fissi. La vegetazione diventa sempre più rigogliosa fino a diventare una foresta, rossa come la strada polverosa nelle sue immediate vicinanze. La povertà di mezzi è evidente anche qui, osservando le piccole case di mattoni crudi coperti dal tetto di paglia ed i bambini sempre sporchi e malconci. Abbiamo percorso molti chilometri eppure nulla è cambiato in quegli occhioni grandi che sembrano sempre implorare un aiuto. Dopo un paio d’ore arriviamo a Meiganga, la prima cittadina che incontriamo sull’altro versante dei Monti Adamawa. Ci fermiamo per un pieno di carburante e per una sosta dal saldatore….dopo l’ultima riparazione di Taoudenni la saldatura di uno dei supporti della tenda ha ceduto di nuovo per via dei ripetuti scossoni e così in una trentina di minuti di saldature Gazelle è pronta per ripartire verso il bivio ad una decina di chilometri da qui. Il benzinaio è stato chiaro….la strada che abbiamo fatto finora era di gran lunga migliore di quella che seguirà verso Garoua Boulai. Saranno 110 km di buche per percorrere le quali impiegheremo almeno 2 ore e mezza di viaggio….ma noi riusciamo ad impiegarne 3 e ad arrivare stremati a Garoua alle due del pomeriggio, provati dalla strada impegnativa per via dei continui stop di fronte ad ogni buca….che stress! Questi viaggi in Africa sono davvero sfinenti perché le distanze da coprire tra un punto di interesse e l’altro sono enormi e disagevoli rispetto alla breve soddisfazione che dà l’osservare ciò che si è lungamente inseguito. A Garoua Boulai inizia finalmente una strada perfetta, perché nuova, che mi consente almeno di leggere qualcosa della storia del Camerun sulla nostra guida……come mi manca la sabbia del deserto….ed il senso di libertà che mi dà saltare da una duna all’altra con Vanni a bordo di Gazelle! Qui invece la vegetazione si fa sempre più rigogliosa e tra gli alberi ad alto fusto iniziano a comparire le belle foglie degli alberi di banano, le uniche che riconosciamo oltre alle palme ed alle stelle di natale, in questa foresta equatoriale….siamo solo 4° sopra l’equatore e questo giustifica tanto verde a perdita d’occhio attorno a noi. Arriviamo a Bertoua dopo circa tre ore di strada impeccabile ed uno stop da parte di un poliziotto arrogante ad un posto di controllo che più che controllare i nostri documenti osserva con occhio voglioso i nostri bagagli appoggiati sul sedile posteriore. Raggiungiamo l’Hotel Mansa, il migliore anche se fatiscente, seguendo comodamente un taxi che ci guida….aver perso mezz’ora ieri sera è servito a qualcosa…. L’hotel è arredato in stile anni ’60, ma porta con sé tutto il peso di questi 40 anni trascorsi senza troppe manutenzioni.

26 Gennaio 2009

BERTOUA – YAOUNDÈ

Nel cuore della notte una raffica di tuoni riesce a svegliarmi nonostante i tappi nelle orecchie che poi tolgo per sentire meglio e godermi il temporale e la pioggia scrosciante….dopo mesi la trovo una cosa piacevolissima. Quando ci svegliamo definitivamente cade ancora qualche goccia ed il pavimento del ballatoio sul quale si apre la porta della nostra camera è bagnato. Uscendo percepisco l’odore di muffa sui miei capelli….Nonostante avessi spruzzato qualche goccia di profumo sui nostri cuscini, quell’odoraccio ha attecchito sulla nostra pelle e non c’è acqua corrente in hotel, nemmeno per una doccia veloce. Puzzolenti di muffa saliamo a bordo di Gazelle per il viaggio relativamente lungo che faremo oggi per raggiungere la capitale…..350 km come leggiamo sulla carta stradale, che non sappiamo in quali condizioni troveremo date le notizie discordanti raccolte ieri sera. Qualche tratto ghiaioso, altri asfaltati, poi ancora terra rossa e di nuovo l’asfalto…..vedremo strada facendo. Subito fuori Bertoua la strada diventa sterrata con buche piene d’acqua, rossa come la terra attorno a noi. Non piove più ma il cielo è nuvoloso e la vegetazione è divenuta verdissima per la pioggia rigenerante appena caduta. Seguendo il percorso serpeggiante tra le curve morbide delle colline, ci immergiamo sempre più nella foresta equatoriale rigogliosa di foglie di ogni tipo ed i tronchi dei Fromegers che svettano puntando verso le nuvole. E’ meravigliosa questa strada che ci consente di penetrare nella foresta senza doverci aprire la strada a colpi di machete! Tutto questo verde finisce col darci energia e ci rende così felici e sereni da affrontare le difficoltà del percorso senza particolare stress ed anzi con l’entusiasmo di due esploratori che si trovano immersi in tanta inattesa prosperità. La strada è in fase di completamento ed incontriamo lungo il percorso diversi cantieri attivi…..tutto ciò che ci era stato confusamente detto era vero….l’ asfalto si alterna a tratti ancora di ghiaia quando non di terra battuta, ma la carreggiata sempre larga ci ha aiutati non poco. Gli ultimi 100 km invece sono perfetti. Lungo la strada incontriamo diversi villaggi, le cui case rettangolari hanno muri fatti di bastoni di legno tamponati con argilla, o solo di tavole di legno. Piccoli mercatini ai bordi della strada vendono caschi di banane e ananas, mentre qualche sagrestano, per richiamare i fedeli, usa percuotere un disco di camion appeso ad una corda anziché la campana. Le indigene che vediamo nei pressi dei villaggi camminano portando una gerla sulle spalle, mentre i maschi che le accompagnano sono armati di machete….vanno nella foresta a raccogliere qualcosa da mangiare e legna da ardere….sono tutti impolverati di rosso. Prima di arrivare in città abbiamo ancora un pio di controlli da parte di poliziotti piuttosto molesti….alcuni di loro addirittura vogliono vedere cosa contengono i cartoni che si intravedono nel bagagliaio….siamo stanchi e non cediamo adducendo come scusa che abbiamo la faccia di due angioletti e che non sono i turisti il problema del Camerun. A Yaoundé ci concediamo un bel regalo occupando una camera al piano executive dell’Hilton…..che ci dà la stessa soddisfazione come di un lecca lecca per un bambino. Ci godiamo il panorama ed il confort della 828 facendo una doccia lunghissima, un passaggio sulle lenzuola profumate ed una fetta di torta al Tea Time della sala da tè al piano. Quando l’entusiasmo dell’essere finalmente in una camera perfetta si è placato, fuggo al business center per controllare sul web la notizia del 23 gennaio relativa al rapimento in Niger dei quattro turisti europei ed ecco cosa leggo: – Quattro turisti sono stati rapiti sul confine tra il Mali ed il Niger, si tratta di due svizzeri, un inglese ed un tedesco. Stavano tornando da un festival nel Nord del Mali, ha dichiarato genericamente il generale maliano Amadou Touré, governatore della regione di Gao. Il rapimento è avvenuto nella località nigerina di Bani-Bangou, a 60 km dalla frontiera maliana, ad opera di ribelli tuareg operanti nell’Est del Mali. I turisti avrebbero partecipato al “festival della cultura nomade” organizzato ad Anderamboukane. Viaggiavano in un convoglio di tre auto quando sono stati fermati in Niger da uomini armati. Il primo autista del convoglio ha potuto scappare malgrado i proiettili sparati contro la sua auto che però non conteneva i turisti europei. Le altre due auto sono state bloccate, i pneumatici tagliati ed i turisti catturati.- La stessa pagina riporta la notizia, che leggo solo ora, del rilascio lo scorso ottobre dei due turisti austriaci rapiti da un gruppo di attivisti islamici lo scorso marzo. Ricordo che la notizia ci era giunta mentre anche noi eravamo in viaggio verso Taoudenni, in pieno Sahara…..otto mesi di sequestro non sono uno scherzo! Vanni intanto è all’agenzia viaggi dell’hotel per prendere i biglietti del volo di ritorno da Douala e poi telefona a Catia, a Ravenna, per vedere di trovare una sistemazione sicura per Gazelle che ci aspetterà per mesi il nostro ritorno qui in Camerun. Quando rivedo Vanni è già in versione europea, cioè senza barba ma completamente rovinato da una rasatura selvaggia sul collo. Dopo aver ammirato il paesaggio collinare sul quale si sviluppa la città dal nostro terrazzo all’ottavo piano, ci concentriamo sugli edifici rappresentativi che sorgono attorno all’hotel caratterizzati da virtuosismi geometrici molto anni ’70. Più oltre le case monofamiliari basse ed un pò scassate del milione di persone che abitano la grande capitale. Non c’è nient’altro da vedere qui …..solo il museo nazionale che però oggi è chiuso. Ci godiamo ancora un pò la nostra camera e con essa un tramonto velato nonostante i 750 metri di altitudine. Ceniamo, anzi ci abbuffiamo al buffet dell’hotel e poi a nanna!

27 Gennaio 2009

YAOUNDÈ – DOUALA

Raggiungiamo Douala, l’ultima tappa di questo nostro secondo viaggio in Africa, dopo una sosta nella casa ancora in costruzione di Francesca, la nostra amica camerunese ma residente a Dozza, che ha deciso di costruire nei pressi di Douala la sua residenza in patria con l’aiuto economico del marito Angelo e di un paio di svogliati muratori locali. Dopo aver attraversato anche oggi gli splendidi paesaggi montuosi ricoperti di foreste lussureggianti, come coperte verdi appoggiate sui corpi stesi di giganti bitorzoluti, arriviamo senza accorgercene al ponte di Bamba, il luogo dell’appuntamento. Per fortuna ci ferma per un controllo una pattuglia di polizia che staziona proprio nel punto esatto dove ci aspetta Francesca, diversamente ci saremmo probabilmente accorti dell’errore solo una volta arrivati in città. Quando abbasso il finestrino vedo il viso arcigno del militare e subito dopo quello sorridente di Francesca che ci viene incontro spingendo di lato il tipo che rimanendo interdetto per i nostri calorosi saluti, rinuncia malvolentieri a qualsiasi tipo di controllo. Dopo una sosta in cantiere cui segue qualche mio consiglio sul disegno del giardino e sulla illuminazione zenitale dell’atrio di ingresso, seguiamo Francesca all’hotel Sawa dove ha prenotato per noi una camera vista mare, o meglio vista porto. L’attività del porto assorbe la città intera e con essa purtroppo anche la sua costa. Subito dopo aver scaricato i bagagli ci porta all’ufficio Sabena per l’acquisto di due biglietti di sola andata per Bologna con scalo a Brixelles. Per evitare di sostare a Bruxelles per più di 12 ore accettiamo di anticipare la partenza al 29, cioè tra due giorni, rimandando così di qualche mese la sosta in una bella località di mare che avevamo immaginato come conclusione di questo nostro viaggio. Andiamo subito dopo nell’ufficio di Roberto Rossi, lo spedizioniere che ci darà una mano nell’acquisto di un contenitore usato dove metteremo Gazelle e nel trovare qualcuno che ci affitti il suolo sul quale sosterà per quasi un anno. l’incontro è veloce e sintetico per via dei clienti che lo aspettano…..ma riusciamo ad avere un paio di informazioni…..il contenitore usato costerà circa 1000 €, ma poi lo rivenderemo al nostro ritorno, la sosta sarà da concordare domani, quando concluderemo l’operazione. Ancora con Francesca andiamo all’aeroporto per chiedere come dobbiamo impacchettare le due enormi maschere di legno per poterle spedire come bagagli in stiva…..una signora sonnacchiosa e dal viso assolutamente inespressivo ci sussurra che per spedirle dobbiamo prendere un certificato del ministero per la protezione delle foreste e della fauna!….perché si tratta di sculture di legno, anche se provenienti dal Burkina Faso….tutto fa brodo. Del resto il costo del certificato, di 3000 cfa non è nulla rispetto al vantaggio di poter avere un foglio da mostrare in un eventuale controllo della dogana italiana….anzi domani torneremo a prenderne uno anche per le farfalle….non si sa mai. Aspettiamo il ritorno di Francesca in compagnia di un drink al bar dell’hotel a quest’ora piuttosto frequentato…..poi con lei andiamo in un ristorantino sul porto, il “Plaquemot Plage” immerso nel silenzio totale….non c’è nessuno a quest’ora nelle strade desolate attorno al porto….solo magazzini chiusi, pile di contenitori immobili e la luce fioca di qualche lampione. Il parcheggio affollato di auto ci rassicura dal non essere finiti in un’imboscata e all’ingresso il buon odore di pesce cotto alla griglia ci invita a proseguire oltre la cucina, costituita da una lunga griglia preceduta da un banco dove rimangono ancora alcuni pesci. Scegliamo tre grandi sogliole e ci accomodiamo nello spiazzo all’aperto dei tavoli, separato dal mare da un muretto bianco. Il nostro è in leggera penombra, essendo al centro dei due neon che illuminano la scena…..una ragazza ci chiede cosa desideriamo bere con un tono quasi scortese. Dopo una mezzoretta interrompe le nostre chiacchiere l’arrivo di una fiamminga contenente i nostri tre pesci arrostiti ornati con qualche fettina di cipolla e pomodoro…..una squisitezza! Francesca ci racconta che la domenica viene sempre qui a pranzo. Prima acquista da una signora dei gamberetti appena pescati che il ristorante si presta di cucinare purché si aggiunga a questo il consumo di una bevanda e di un contorno proposto da loro. Francesca, che vive in Italia da più di 20 anni è persino più impietosa di noi nel giudicare la scarsa igiene, la scortesia e la poca voglia di lavorare di alcuni suoi compatrioti, quindi non lasciamo nemmeno un centesimo di mancia e ce ne andiamo soddisfatti dell’ottimo pesce e del contorno di manioca che assaggio per la prima volta…..sono grosse striscie di colore bianco e consistenza leggermente gommosa. Non hanno sapore, ma diventano squisite se intinte nella salsa di soia. Ci sono state servite arrotolate su un piatto, come tanti fiori bianchi e carnosi. E’ sempre un piacere scoprire questi posticini autentici con le persone del luogo….il risultato è sempre garantito ed il viaggio si colora così del folclore che a noi piace tanto!

28 Gennaio 2009

DOUALA

Il relax di Douala fa bene al nostro amore, dandogli una sferzata di energia e di tenerezza. Vanni, già proiettato sul nostro rientro, si garantisce una bella scorpacciata di caviale con una telefonata a Daniela, mentre Sandra si offre, carina come sempre, di andare ad accendere il nostro termosifone altrimenti, dice, finiremo assiderati. Mia madre con un sms si dice pronta per gli gnocchi di patate e la Germana fa finta di non desiderare il nostro rientro solo dopo che Vanni le ha comunicato la data esatta della nostra partenza da Douala. Questi sporadici ma intensi contatti con l’Italia ci aiutano a desiderare di tornare…cosa per nulla scontata per noi seminomadi. Il cielo nuvoloso di oggi stende sulla città un’atmosfera leggermente tetra ed appiccicosa che esclude il progetto di un paio d’ore di sole accanto alla piscina del tutto impraticabile. Vanni è in fibrillazione perché Roberto Rossi della Delmas ( 00237 99934621 ) non ha ancora dato notizie di sé e cammina nervosamente sulla moquette azzurra della nostra 830. Visto che il tempo stringe ed il nostro volo è per domani sera, si informa presso un impiegato della sicurezza dell’hotel per valutare una soluzione alternativa, ma la strada si rivela impraticabile. Il pomeriggio trascorre nella noia dell’attesa di una telefonata che non arriva e nel fare gli ultimi ritocchi ai due pacchi delle maschere…..almeno per renderli accettabili agli occhi dei facchini europei, e più robusti…. così come sono si aprirebbero al primo passaggio di mano. Poco dopo facciamo un tentativo in aeroporto dove scopriamo esistere un parcheggio coperto sorvegliato 24 ore su 24…..più sicuro di Fort Knox, dicono gli impiegati dell’aeroporto. Tutto considerato ci sembra una soluzione accettabile ed il costo di 600 € per un anno, del tutto conveniente rispetto all’acquisto del contenitore usato.Ancora qualche ora di noia in Hotel poi alle 19 arriva Francesca per accompagnarci a cena in un posticino che conosce lei, dove si mangiano gamberoni sensazionali. Ci fermiamo poco oltre il ristorante di ieri sera, di fianco ad una baracca di lamiera sotto la cui tettoia la signora Delphine cucina sulle braci i prelibati gamberoni appena pescati. Di fianco alla baracca qualche tavolino di legno e sedie di plastica ospitano i pochi avventori di questa sera. Sistemiamo sul tavolo la terrina di insalata preparata da Francesca, ordiniamo un paio di birre ed aspettiamo che Delphine termini la cottura. Poco dopo arriva sul tavolo una fiamminga straripante di gamberoni cotti al punto e conditi con una salsina strepitosa leggermente speziata…..la cui ricetta rimarrà top secret spero solo fino a domani sera…. quando tornando qui, spero riuscirò a fare breccia nel muro di silenzio della mitica signora Delphine!

29 Gennaio 2009

DOUALA – BOLOGNA

Mi sveglia il bussare insistente alla porta di un ragazzo in tuta da meccanico che dice di aver prestato a Vanni, che dorme tranquillo, una chiave del 10 che ora vuole gli venga restituita. Furiosa sveglio Vanni e mi infilo nuovamente tra le lenzuola senza poter più prendere sonno. Rimango di pessimo umore per tutta la mattinata. Nel frattempo telefona Roberto che teniamo in attesa di risposta fino al nostro sopralluogo in aeroporto dove dobbiamo ancora verificare alcune cose relative alla sicurezza del parcheggio…..vorremmo ad esempio sapere se sono assicurati contro i furti e se ci garantiscono qualcosa con un contratto firmato dalle parti. Dal colloquio non scaturisce nulla di buono perché il pagamento è anticipato e l’unico documento che viene rilasciato è una ricevuta di pagamento della sosta ed un foglietto di attestazione da riconsegnare al momento del ritiro. In dieci anni nessun furto di auto è mai avvenuto in questo garage, dice l’impiegato, ma se ciò dovesse accadere quei due foglietti di carta sarebbero l’unica cosa a rimanere di Gazelle…. e si sa che qui non ci pensano due volte a fregarti! Memori del racconto di Umberto di qualche tempo fa, che lasciò ad un amico di Douala il suo fuoristrada affinché lo custodisse per un pò di tempo e che poi si è ritrovato con l’auto venduta e nemmeno un centesimo di compenso per lui, decidiamo che non è il caso di dare fiducia a questa gente, ma l’alternativa stenta ad arrivare. Quando Vanni torna dalla sua visita a Roberto Rossi, mi racconta scoraggiato che non c’è nessun contenitore usato disponibile in tutto il porto di Douala. Ciò che Roberto propone è di lasciare Gazelle a casa sua fino a quando l’operazione sarà fattibile, quindi provvederà lui ad inserirla nel contenitore e Vanni a quel punto farà un bonifico di pagamento dall’Italia. Insomma per lasciare Gazelle è necessario fidarsi di qualcuno….e Roberto il ravennate vince senz’altro sugli africani di Douala. Ma ecco che Vanni ha un’idea….un suo conoscente italiano ha un deposito di legname proprio qui in città. Riesce a contattarlo con una serie di ricerche degne di Sherlock Holmes ed a chiudere in breve tempo il problema Gazelle…..che Genio! Ora che la nostra piccola è al sicuro all’interno di un’azienda italiana nella periferia di Douala, possiamo concederci il bis di gamberoni dalla signora Delphine ed infine partire dopo una piccola lotta con i doganieri dell’aeroporto della città. C’è un caldo soffocante nonostante l’ora tarda…..ma non ci consola affatto l’idea che tra poche ore sorvoleremo le Alpi innevate ed atterreremo nella gelata Bologna….ma il viaggio è stato faticoso e tornare in fin dei conti è quasi un piacere.

Rimangono in Africa:
Vanni:
caftano bianco
1 camicia azzurra
pantaloni blu
2 magliette bianche
1 maglia gialla
1 polo blu a manica lunga

Alessandra:
maglia viola
camicia da notte
camicia bianca
2 pantaloni
2 costumi da mare
3 canotte
2 maglie manica lunga
maglia manica lunga di lana
casacca indiana azzurra

taglia unghie, forbicini, dentifricio, borsa acqua calda, ob, shampoo, balsamo, pettine.


Menù delle città

Percorso della tappa

Fotografie
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Cambia Tappa

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14 Camerun


14 Dicembre 2011

BOLOGNA – DOUALA

Corpi che si muovono freneticamente, collisioni non sempre evitate, lotte per un posto in prima fila al nastro trasportatore, grandi valigie, carrelli introvabili, colori, odori, neonati a tracolla, caos e caldo umido. Infine un signore in caftano azzurro e tessuto bianco arrotolato attorno alla testa ci sottrae ad un paio di ragazzi che non ci mollano, si chiama Ermin e ci stava aspettando, siamo arrivati in Africa. Dopo tre anni avevamo dimenticato Douala, ma non il rosa dei gamberoni di Delphine e per contrasto il bianco ed il nero mescolati sulle poltroncine del bar dell’hotel Ibis dove sorrisi forzatamente allegri color rosso acceso aspettano di essere noleggiati per un bacio ed altro. E’ di nuovo mattina quando un altro signore, alto e nerissimo ci accompagna da Gazelle, si chiama Francois ed anche lui ci stava aspettando per mostrarci il capolavoro del quale va fiero… rimessa a nuovo ed ancora parcheggiata nel cortile dove l’avevamo lasciata troviamo la nostra compagna di viaggi diversa. Accessoriata con fanali supplementari e verricello, il nuovo look non le si addice ma la fa sembrare un fuoristrada serio, un inaspettato colpo di scena che ci consentirà di uscire da eventuali inpantanamenti, di viaggiare al fresco e con colonna sonora, il regista invisibile di tutto ciò è un caro amico, generoso ed onnipotente.

15 Dicembre 2011

DOUALA

Anche Douala si presenta quest’anno diversa, la nostra sosta fu allora tutta concentrata sul reperimento di biglietti aerei e di un parcheggio sicuro per Gazelle, ora invece che abbiamo tutto il tempo da dedicarle, siamo a zonzo lungo le strade di una città che credevamo di conoscere. Gli sportelli chiusi rendono il taxi un luogo sicuro dentro il quale approdare al mercato cittadino, l’unico che abbia un senso visitare, quello verace di ……….. Non si può dire che i centroafricani siano dei gran lavoratori, ma il loro amore per il comodo commercio restituisce alle città quel fermento che altrimenti non avrebbero. Quando come in questo caso le energie si concentrano in un luogo specifico nasce il mercato, inserito nei tentacoli di una cashba o sui marciapiedi dove i prodotti in vendita sono già sciupati, scoloriti dal sole e dalla patina di polvere sollevata dalle auto e dalle moto di chi potendoselo permettere evita la bicicletta passando direttamente alla comodità estrema. I finestrini aperti solo a metà, il taxista ci invita a non scendere, anzi non ci avrebbe accompagnati fin qui se non avessimo accettato la sua irrevocabile condizione…. e come dargli torto vista l’aggressività che uno scatto dietro al finestrino fa esplodere fra quelli che molleggiati sulle ginocchia stanno passeggiando lungo la strada. Se avessero potuto mi avrebbero nella migliore delle ipotesi dato una pedata nel sedere ed avrebbero avuto ragione, anch’io non amo comparire in foto rubate. Sono belli loro, e semplici come i materassi accatastati in alte pile colorate ed i cerchioni dei camion rivisitati come originali barbecue. Organizzato in zone, passiamo dai libri appesi in file verticali ondeggianti come tende a casse di bottiglie, alle foto sbiadite di acconciature lisce, il crespo è considerato molto dozzinale ed il trattamento a suon di spazzola una logorante necessità. Il mercato è attorno a noi, ruspante ed aggressivo si dilata ad occupare la strada con pannocchie arrostite, spiedini di carne, e con i carretti vetrina che inciampano sulle auto ammaccate in costante imbottigliamento…. e quando anche il carretto è troppo impegnativo ecco che la merce viene esposta in equilibrio sulla testa, come le scarpe che un ragazzo indossa come un originale cappello. Qui dove gli schiamazzi si uniscono al frastuono dei clacson, dove il caos è la struttura dello spettacolo manca solo lo spargimento di sangue. Julio sembra voler riscattare la sua città soffermandosi discretamente vicino ai modesti edifici del colonialismo tedesco ormai in rovina ed a quelli più recenti piacevolmente articolati in marcati geometrismi mosaicati in colori che ne esaltano il disegno. Siamo nel quartiere delle banche ora, la parentesi che introduce al porto dove oltre gli immensi capannoni, i piazzali pieni di continer, i tronchi e le montagne di semi di cacao. Poi il piazzale polveroso in riva al mare dove il pesce in vendita è contenuto in freezer aperti e senza energia. Lì di fianco c’è Delphine sempre intenta a cucinare il pesce davanti all’immancabile barbecue che trabocca di pesce. Alta, i capelli raccolti in un tessuto bianco ed un camicione variopinto che la copre per intero l’avevamo lasciata tre anni fa nella stessa posizione ed ora è visibilmente contenta che la squisitezza dei suoi gambas le abbiano riportato due vecchi clienti, bianchi e felici di rivederla. La serata invece sorprende noi con un cocktail di benvenuto nel tiratissimo dehor bordo piscina del Akwa Palace in compagnia dei simpatici italiani che lo hanno organizzato per noi…. una giornata strana quella di oggi nella quale cercando l’Africa abbiamo trovato l’Europa.

16 Dicembre 2011

DOUALA – BODWA

E’ già tardi quando in compagnia di Francklin lasciamo la città … ma un ritardo di almeno un’ora è quello minimo attualmente praticato senza ulteriori sconti dagli abitanti di Douala, per gli imbottigliamenti lungo le sue strade che rappresentano un vero problema e più in generale per il ritardo cinese nella conquista del mercato delle sveglie qui in Africa. Visibilmente deluso dall’essere stato destituito senza troppe cerimonie dal ruolo che aveva sperato di coprire, ha ceduto con sofferenza il volante e si è accomodato sul sedile posteriore di quella che lui deve aver considerata sua per il fatto di averla acessoriata, la nostra Gazelle. Oltre la periferia ci dirigiamo a Nord, verso la falesia e poi a Bamenda dalla quale inizierà il nostro tour sulla Ring Road, il percorso che si sviluppa ad anello fra montagne e vallate che dicono bellissime ma che a noi sembra impossibile possano superare quelle dei fantastici monti Mandara. Con i documenti di Gazelle in ordine ci sentiamo invulnerabili e pronti ad affrontare la tediosa arroganza dei poliziotti corrotti che infestano le strade con la stessa frequenza dei numerosi mercati nei villaggi impolverati di rosso come la terra che li ha generati. Animati dalla frenesia di chi vuole vendere a tutti i costi gli africani si dedicano con entusiasmo alla comoda attività del commercio e la strada è colorata delle tinte accese di frutti, e verdure miscelati al bianco candido dei fiocchi di manioca ed al color melanzana dei semi di cola che si ciucciano come grandi caramelle dal sapore aspro. Confezionati in sacchetti trasparenti li vediamo ondeggiare di fronte ai finestrini, mossi dalle decine di ambulanti spalmati sui nostri vetri che si azzuffano per conquistare un primo posto, fra di loro qualche giovane che deluso non si trattiene dal mollare anche qualche pugno … usanza locale o povertà estrema? Senz’altro un mondo dal quale ci estraniamo come spettatori infastiditi chiudendo ermeticamente finestrini e portiere…. Seduta sul sedile posteriore, declassata a passeggero in seconda fila distolgo lo sguardo dai labbroni che alternano urli a volgari bacetti ed istintivamente mando a quel paese nella speranza che il bigliettino del pedaggio cada sulle mani di Vanni il più in fretta possibile. Ma è qualcos’altro ad attirare la nostra attenzione, simili ad appuntite piroghe mignon gli involucri di foglie di banano contengono la polpa di manioca, alimento principale della dieta africana, scontato per chi vive qui ma ancora un mistero per noi che ad ogni mercato vediamo aumentare la curiosità di saperne di più. E’ così che capiamo ora cosa erano tutti quei fiocchi candidi stesi sui tetti ad asciugare, l’unica cosa bianchissima vista oggi. Il desiderio di essere al mio posto accanto al mio inseparabile compagno di viaggio si affievolisce ad ogni posto di blocco, quando grumi di poliziotti ci fermano per il controllo dei documenti, troppe volte nel tratto relativamente breve percorso finora. Il fucile in mano si accostano con visi così seri da non lasciare dubbi, sono loro a condurre il gioco e con i passaporti in mano aspettano troppo tempo prima di riconsegnare, una banale strategia per costringerci a sganciare il piccolo obolo, l’equivalente di un paio di euro. Infastiditi piuttosto per l’arroganza di questi briganti della strada, come li chiama Franklin, e soprattutto per il tempo che ci fanno perdere inutilmente stringiamo i denti e passiamo oltre…. Il lavoro di Franklin per la messa a punto di Gazelle inizia ben presto a far acqua da tutte le parti ed i freni in avaria ci costringono a proseguire a singhiozzo tra una secchiata e l’altra di acqua gelata sul mozzo rovente mentre nel buio che ora è sceso sembriamo su una ridicola astronave. Con il lampeggiante acceso sopra il tettuccio ed i fanali supplementari che sparano fasci di luce ovunque ci fermiamo nel primo hotel che vediamo, il Venus di Bodva. Lenzuola inaspettatamente pulite e birra nel ristorantino accanto dove la cameriera è gentilissima, gli sguardi dei presenti non proprio rassicuranti e la borsetta finisce sotto il tavolo.

17 Dicembre 2011

BODWA – BAMENDA

Franklin inizia a scontare la pena autoinflittasi fin dall’alba, quando Vanni preoccupato più per l’assenza di Gazelle che del nostro aiutante lo trova nell’unica officina del paese alle prese con gli ingranaggi del freno posteriore …. ma lo scivolone è ormai irrimediabile e quando arriviamo infine a Bamenda, non sapendo come riconquistare Vanni, inizia persino a spolverare il cruscotto ed a lustrare il parabrezza…. ma non so quanto a lungo Vanni resisterà a tutte queste cerimonie! La città è grande e spoglia, ne osserviamo l’agglomerato ampio e modesto dall’alto, appannato dalla foschia e calato nel verde delle colline che ne modellano la forma. Va da se che la giornata è interamente dedicata a quel freno malandato e si conclude con l’ingresso di una sposa nel giardino dell’hotel Ayuda, anni 60 e da ristrutturare. Al centro di una moltitudine di tavoli allestiti con fiocchi e fiori, sulla moquette rossa stesa per l’occasione incede danzando accanto al marito, sexy, scatenata ed incitata dagli ospiti che partecipano allegramente ballando e battendo le mani al ritmo di un brano alla moda di Salif Keita, intanto alcuni fuochi d’artificio salgono dietro al palco d’onore spaventando tutti. Al tripudio della festa si contrappone il ristorante semivuoto nel quale senza nessun imbarazzo l’unica cameriera rimasta ci comunica che la festa di matrimonio ha assorbito tutte le energie della dispensa e non resta quasi nulla da mangiare …. senza indugio iniziamo ridendo la nostra dieta preventiva!

18 Dicembre 2011

BAMENDA

Il compito di Bertrand non è facile come sembra, mostrare i luoghi di interesse di una città che non ne ha è una impresa ardua, ma è la sua città e lui la considera senz’altro bella in ogni suo angolo, soprattutto il corso principale oggi deserto … è domenica anche qui a Bamenda. L’assenza dell’adorabile confusione, di colori, moto, auto e passanti che si muovono contemporaneamente, insomma di tutto ciò che rende belle anche le città senza storia, ci delude come un palcoscenico senza attori. E’ di Vanni l’idea di portare un paio dei palloni che abbiamo in valigia alla missione cattolica in città e come chi per assurdo non conosce le strade dietro casa Bertrand sceglie un sentiero molto accidentato nel quale accade l’ennesimo disastro … la buca più profonda storce il semiasse posteriore della nostra Gazelle che vecchia e stanca è ora da pronto soccorso e non potendo muoverla da qui inizia in loco il lungo travaglio della sua rimessa in sesto…. che pazienza! Dopo aver recuperato qualche pietra ed assi di legno, sfoderato il cric e chiamato con due urli un meccanico che abita sull’altro lato del fiumiciattolo, inizia a colpi di martello la riparazione. Qualche curioso naturalmente è arrivato ed ha aiutato a risolvere il problema che ora tutti sentono come il loro…. non si è mai soli qui in Africa…. ed un gruppo di bambine sta riempiendo taniche di acqua dal rubinetto a pochi metri dal luogo della tragedia. Guardano curiose e con gli occhi a terra aspettano che io rompa il ghiaccio, un bel modo per non pensare dal semiasse, poi le vedo caricare sulla testa le taniche pesantissime ed allontanarsi. Quattro ore e siamo pronti per raggiungere Francois, il boss di Franklin, impegnato nella festa annuale del villaggio di Bali. Vestito in abiti tradizionali a sacco di tessuto nero e grosso con sgargianti applicazioni rosse e gialle è ridicolo come buona parte della moltitudine degli attempati partecipanti che affollano la strada principale muovendosi dal crocevia verso la piazza che si affaccia su una delle tante vallate dell’intorno collinare. I più giovani invece, lontani dalla riproposizione nostalgica di usanze ormai svuotate dei loro contenuti, sparano a salve con i loro lunghi fucili di legno scuro, indossano abiti attillati che evidenziano la bellezza dei loro corpi e parrucche carnevalesche. Sono tutti qui riuniti per la festa che anticipando il natale ed il capodanno li festeggia entrambi nella terza settimana di dicembre. L’atmosfera carnevalesca e festosa fa da contorno ad una ritualità antica perpetuata di generazione in generazione da un gruppo di anziani che non esitano anche oggi ad autocelebrarsi ribadendo la struttura gerarchica del potere culminante nella figura del re. Era lui che fino a pochi decenni fa esercitava il suo potere assoluto sul suo territorio, una sorta di capo clan che emanava leggi e le faceva rispettare attraverso i suoi ministri. Il boss è uno di loro e scompare presto vicino al trono reso inaccessibile dalla sbarra che isola la piazza ora deserta…. a giudicare dal timore che Franklin ha nei confronti del suo boss qualcosa deve essere rimasto di questo tradizionale esercizio del potere…. poverino, quando Francois ha saputo del disastro del semiasse lo ha incenerito con uno sguardo ed ha infierito in modo eccessivo costringendolo ad assumere un’aria contrita da cagnolino bastonato… adesso è chiaro perché usciti dal fango della sterrata si era prodigato nel pulirci le scarpe…. voleva cancellare ogni traccia dell’accaduto? Ceniamo con gli avanzi del party di ieri… i rifornimenti infatti arriveranno solo domani ed anche le cameriere oggi sono stanche, così tanto che l’whisky di Vanni non è mai stato portato al tavolo, la richiesta è arrivata troppo tardi, ce ne siamo accorti quando poco dopo abbiamo visto scappare la cameriera con la borsetta in mano ed un sorriso di scuse sulle labbra …. che ridere!

21 Dicembre 2011

DOUALA

Abbiamo lasciato Bamenda e la Ring Road senza averla vista e con i freni ancora disastrati ci siamo avviati lungo la strada che porta a Sud senza sapere se saremmo arrivati a Douala o se invece avremmo fatto una strage di polli pomodori e persone in un fatale ed involontario salto fuori strada. Indifferenti alle quattro frecce ed al lampeggiante sul tettuccio gli abitanti di Douala hanno messo a dura prova l’abilità di Vanni che con la fronte imperlata di sudore ha proceduto a slalom fra passanti moto ed auto che sembravano voler a tutti i costi essere travolti. Difficilmente si può immaginare il casino che riescono a creare lungo le strade i locali a meno che non si sia già stati qui, e così con l’ansia alle stelle ed i nervi a fior di pelle ho preso in seria considerazione l’ipotesi di mollare Vanni per i disastrosi esordi dei nostri viaggi più recenti, ma ho poi ripiegato con una scenata ed il suggerimento dell’acquisto di un paio di Land Cruiser che non abbiano conquistato il titolo di auto storiche. Sola ed abbandonata al mio destino di viaggiatrice in attesa di poter ripartire in sicurezza, avendo già visto quello che di “ interessante “ la città aveva da offrire, la noia si è infine impossessata delle mie giornate e così rimbalzando da un lettino all’altro attorno alla piscina dell’Ibis, ho con difficoltà trovato consolazione nei gamberoni di Delfine e nella cena in un ristorantino sulla spiaggia resa invisibile dalla staccionata e dal buio della notte. Lo abbiamo raggiunto in taxi attraverso le strade del porto avvolte nell’oscurità, blindati dentro la Toyota Corolla scassata di Julio abbiamo prevenuto gli eventuali assalti da parte dei gruppetti di uomini dei quali si vedevano solo confuse silouettes. Raggiunto il piazzale di terra battuta del Bandol Plage a quest’ora vuoto dei carretti carichi dei pescatori, abbiamo scelto da un secchio cinque grossi astici ed atteso la cottura comodamente seduti ad un tavolino di bambù. La scelta si è presto rivelata vincente, per l’aria fresca e per la musica caraibica che la chitarra e la voce di un cameriere hanno reso bellissime per l’intonazione romantica e malinconica. L’assito di legno traballante, il basso soffitto rivestito con geometrie di bambù, le poche pareti colorate di azzurro, la strana luce diffusa da una lampadina colorata penzolante sopra il nostro tavolo ed infine gli squisiti astici hanno reso questa serata la più bella e la più verace qui in città.

24 Dicembre 2011

YAOUNDE – MINDOUROU

La capitale è già in fermento quando molto presto ci avviamo dal centro verso la periferia, nulla a che vedere con la spumeggiante chiassosa serata di ieri quando la musica, le grida ed il fumo di grigliate avevano raggiunto dalla grande piazza del centro il nostro quarto piano rendendoci spettatori degli scatenati festeggiamenti del Natale. Sono solo le sette del mattino eppure molti hanno già ritrovato l’energia per allestire le rudimentali bancarelle ed i carretti ambulanti o per mettersi al volante di auto, moto e camion che hanno creato lo scompiglio sulla strada nella quale anche noi ci siamo avventurati. Difficile immaginare il caos che hanno generato i locali se non trovandovisi intrappolati, stretti sui quattro lati da auto e camion che come noi vorrebbero sfondare la barriera compatta dei mezzi che ci fronteggiano ad un centinaio di metri di distanza, là in fondo alla massa dei corpi metallici ruggenti. La lotta per la conquista di qualche metro, la paziente attesa di una svolta, laggiù al fronte nel quale qualcuno dovrà pur uscire vincitore… noi o loro? non è semplice quando due strade a doppio senso di marcia diventano per diversi motivi due sensi unici. I cavi di due tralicci crollati penzolano infatti sulle teste di motociclisti incuranti e dei pedoni che si muovono sui marciapiedi fra galline razzolanti, caramelle e frutta mentre alcuni oziosi osservano la sposa che cammina sulla terra rossa cercando di non sporcare il suo abito bianco ancora immacolato. Poco oltre l’autista inesperto di un tir vorrebbe curvare su una stradina troppo stretta ed un vigile inviperito gli sta afferrando il pantalone per tirarlo giù dalla cabina e forse malmenarlo. Poi qualcuno ce la fa e spinto da un necessario spirito di sopravvivenza dribbla attraverso un parcheggio ad asola risolvendo l’irrisolvibile e consentendoci di inserirci finalmente sulla strada che porta a Bertoua dove ci attendono un paio di soste forzate ai posti di blocco della polizia… Che dire, sembrano subodorare la preziosa preda bianca ed il suo carico di banconote da chilometri di distanza ed è impossibile sottrarsi alla loro arrogante inquisizione, alla bramosia di trovare un cavillo al quale attaccarsi. La presenza della cassetta del pronto soccorso, del triangolo e dell’ estintore col quale Vanni sfinito spruzza un po di schiuma sui piedi del comandante che insiste sul suo malfunzionamento. Assurdo se si considera lo stato pietoso delle auto circolanti nelle quali la superficie di nastro adesivo supera di gran lunga quella della carrozzeria. Tra una rottura di scatole e l’altra ci troviamo involontariamente protagonisti di una buona azione squisitamente animalista …. nel nostro caso necessaria per evitare insopportabili sensi di colpa …. un Pangolin penzola sul bordo strada dalla mano di un onnivoro locale, è un formichiere coperto da grandi squame, una specie ora in via di estinzione …. grrr questi africani mangiano proprio di tutto pur di non fare la fatica di allevare animali, accudendoli e sbattendosi per la loro crescita …. il carnefice non capisce perché desideriamo acquistare se non per gustare qualche buon bocconcino arrostito … ma in fondo ha solo voglia di fare affari e seppur basito cede l’animale porgendone la coda ed aiutandoci a caricarlo su Gazelle. All’emergenza Pangolin si succede quella di Vanni che di fronte agli escrementi rilasciati sul retro dall’animale spaventato va su tutte le furie sbraitando fino al suo lancio finale in foresta, nella selva dove speriamo sopravviverà ancora a lungo. Seduto sul sedile posteriore Michel sogna di diventare un bravo giocatore di calcio e fa finta di partecipare alle nostre incazzature scollegato dietro alle cuffie del mio I Pod…. Riemerge solo quando Vanni stressato dalla lunghezza di questo viaggio ad ostacoli e dalla scomoda sterrata rossa sulla quale siamo da almeno quattro ore gli chiede urlando quanti chilometri mancano con esattezza fino all’arrivo al campo di Mindourou. Ora è buio e sui due lati della pista, tra le poche case dei villaggi in primo piano sulla foresta si sono accesi i fuochi ed i visi di persone semplici che vivono come millenni fa mangiando gli animali che cacciano e la frutta e la manioca che trovano. Lo stile di vita più primitivo di chi ci ha preceduti, quelli che gli antropologi definiscono i cacciatori e raccoglitori, in questo caso i pigmei. Il tempo di prendere possesso della nostra camera ed è già la cena di benvenuto in compagnia degli ospitali e piacevoli bianchi di Mindourou.

25/26 Dicembre 2011

MINDOUROU

La foresta è oltre il fiume limaccioso, appena visibile dal belvedere costruito sul punto più esterno del campo. Completamente invisibile invece, oltre il cancello sorvegliato c’è il villaggio dove i locali vivono in povere baracche di legno ed i bambini si muovono vivaci con i loro ventri gonfi ed i sorrisi sulle labbra. Qualche adulto con la bottiglia di birra in mano mi invita ad entrare nelle case dove vivono quei bambini, i loro figli, desiderando pateticamente scaricare su di me la responsabilità della loro povertà, come se ciò non dipendesse dalla loro scarsa intraprendenza e dalla radicata avversione al lavoro. Quelli che non stanno ciondolando sulle panche di fronte ai baretti che vendono birra lavorano nell’azienda locale, alle macchine che trasformano gli alberi in assi e listelli o che marchiano con triangoli e cerchi colorati le sezioni dei tronchi abbattuti e tagliati. Due realtà opposte, i bianchi ed i neri, i lavoratori e gli oziosi, i ricchi ed i poveri che trovano un punto di comunione, il luogo di pacifica convivenza nella fabbrica del legno. Chassy è il cuoco del club, introvabile quando se ne ha bisogno ma zelante quando infine dopo averlo individuato gli si chiede di preparare una colazione o un’insalata. Le sue emicranie, la troppa birra e la sorella all’ospedale della parrocchia ne fanno un bersaglio mobile che solo i custodi fermi al cancello riescono a rintracciare e qualche volta a convincere di spostarsi dal villaggio al club. E’ con lui che mi avvio lungo lo stradello che scende ripido oltre lo steccato del campo fino al fiume abbastanza largo da divaricare la foresta che lo comprime sulle sponde. La spiaggetta è affollata. Donne armate di sapone lavano sbattendo più volte i vestiti sull’acqua, forse quelli dei bambini che giocano nudi sulla riva e poi tuffano i loro corpi perfetti e vellutati dentro la superficie marroncina. Una bambina alta poche decine di centimetri piange per la gomitata che sua madre le ha assestato sulla testa e poco dopo il barcaiolo poliomielitico che arriva a bordo della sua piroga scavata nel legno di un albero. Le gambe sono quasi invisibili sotto il busto, nascoste sotto l’assicella sulla quale è seduto, rattrappite sul fondo. Scivoliamo nel silenzio delle acque immobili, accompagnati dalla leggera brezza generata dal nostro movimento, lentamente all’ombra degli alberi inclinati verso l’acqua, vorremmo non fermarci per ore, continuando a lanciare cenni di saluto ai pescatori che seduti sulle loro piroghe posano per una foto mentre trattengono le lenze con le dita dei piedi o lanciano reti leggere sulla superficie che si increspa. Il ritorno controcorrente è scandito da incontri che vogliono sembrare casuali, si è sparsa la voce del mio passaggio ed alcuni non resistono alla tentazione di agganciarmi per una foto in bianca e nero o per la sponsorizzazione di un’agenzia di turismo… l’attività più improbabile qui a Mindourou. Poi è il turno del piroghiere che ripulito e seduto sulla sua rudimentale sedia a rotelle arriva al cancello del campo chiedendomi un compenso esorbitante al quale cedo volentieri.

27 Dicembre 2011

MINDOUROU – KIKA

Mohamed non dice una parola mentre sfreccia veloce sulla sterrata rossa che porta a Kika. Verso la promessa di gorilla e pigmei nell’estremo Sud-Est del paese, là dove il Cameroun sfiora la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centroafricana, sette ore per quattrocento chilometri di polvere rossa e veloci camion navetta che sembrano travolgerci ogni volta con il loro carico di grossi tronchi. Poveri villaggi di capanne terrose, bambini che giocano, piccoli mercati, foglie rosse di polvere, qualche barriera da superare ed infine Kika che ci appare bella ed arroccata sulla sua collina, un’oasi di chalet bianchi circondati dall’ impenetrabile foresta equatoriale e di prati verdi illuminati dalla luce bassa del tramonto. L’accoglienza è tutta francese, come lo champagne che ci viene servito e Bruno, il direttore del centro che ha fatto del club un ristorante tre forchette Micheline…. insomma siamo in un paradiso a 360°!

28 Dicembre 2011

KIKA

Non servono i pigmei né gli animali selvaggi della foresta per decidere di rimanere a lungo nel nostro chalet a Kika, ma siamo qui per loro ed è con Aminu, il nostro riservato autista in abito lungo, che muoviamo i primi passi in quella che è ancora per noi una massa verde ed impenetrabile. I rami che strisciano sui fianchi del pick-up, ci inoltriamo impavidi tra gli alberi altissimi di una fitta selva, lungo il tunnel verde che si arena là dove i pigmei hanno smesso di mantenerlo aperto a colpi di machete. Il passepartout della foresta, la lama curva e luccicante dei colpi assestati con forza, l’indispensabile strumento disponibile anche in versione mignon per i bambini senza pistole di plastica né archi o frecce e per le bambine che non giocano con bamboline bionde e bellissime. Protagonisti dei nostri sogni di bambini e dei copioni mozzafiato della cinematografia Holliwoodiana il Tarzan e la Jane nei quali ci siamo identificati per anni ci appaiono ora sotto forma di esserini pazzerelli e simpatici, piccoli e sporchi, i folletti della foresta. Ne incontriamo una coppia che cammina mollemente verso casa con un cane in braccio, vestiti di stracci, la fronte imperlata di sudore e gli occhi lucidi di chi ha alzato il gomito si avvicinano e gesticolando ci travolgono con la loro aggressiva allegria, gli occhi grandi e sporgenti ed il seno semicoperto che ciondola parallelo al ventre scarnito, i pochi denti gialli contenuti tra labbra sempre sorridenti, sono piccoli come bambini e vivacissimi. Salgono nel cassone posteriore e ridacchiano nel vederci urlare di felicità mentre con le mani strette al maniglione voliamo lungo i due solchi di terra, gli occhi al cielo azzurro incorniciato di foglie, carichi dell’energia della natura che ora è dentro di noi, i capelli al vento ci sentiamo liberi e felici come due ragazzini che giocano a fare Indiana Jones … e che si abbracciano eccitati sotto i rami più bassi. Arriviamo sulla strada appena in tempo per assistere ad un litigio furioso fra i nostri due ospiti ed un pigmeo incazzato che brandendo ubriaco il suo machete minaccia di colpire se non gli verrà restituito il suo cane …. naturalmente i due non mollano e per evitare spargimenti di sangue andiamo oltre sperando di non essere inseguiti verso le capanne a forma di igloo, quelle costruite nei rari momenti di sobrietà flettendo a cupola i rami e ricoprendoli di foglie secche. E’ tutto ciò che rimane di quelli che hanno vissuto nella foresta come nella loro casa, quelli nudi ed agili che si arrampicavano sugli alti alberi per raccogliere il miele, che bevevano acqua piovana raccolta in coni di foglie di banano, quelli che venivano cacciati e mangiati come animali dai famelici Bantù. Sono ai lati delle strade ora … lontani dalle illusorie promesse di quei missionari che volevano aiutarli e che poi sono andati via senza lasciare nulla … sono i barboni della foresta.

29 Dicembre 2011

PARCO DJEMBE’

Consigliatissimo dai simpatici francesi del campo ci avviamo di buonora carichi di aspettative lungo la strada che porta al Parco Djembé, come sempre sterrata e rossa. Con due taniche di benzina nel cassone, il frigorifero da viaggio pieno di bevande e di cibo, facendoci largo a colpi di machete sui rami che bloccano la strada ci inoltriamo nel grande parco del WWF. La luce del sole ancora bassa, avanziamo con qualche sussulto circondati dal concentrato di foglie e legno nel quale cercando gorilla troviamo invece una elefantessa di foresta ed il suo bebè che attraversano la strada …. un avvistamento che molti avrebbero considerato fortunato dato che la foresta rende questi elefanti soprattutto invisibili …. ma siamo esigenti e considerando questo solo un assaggino di ciò che verrà proseguiamo con l’entusiasmo di chi è stato sempre molto fortunato… in altri parchi africani. Accompagnati da scimmie che saltano da un ramo all’altro in perfetti equilibrismi e dai suoni che rendono la foresta ancora più misteriosa arriviamo al campo di accoglienza dopo più di tre ore di comodo viaggio da Kika. L’immenso Congo è ora ad un centinaio di metri da noi, oltre il fiume limaccioso dove piroghe di legno sono legate ad un paletto di legno e qualche tegame già lavato è in equilibrio su una rudimentale panca affondata nella melma cedevole della riva. Accolti da un gruppetto assortito di giovani bantù e di pigmei, solo ora in pacifica convivenza ma fino a qualche decennio fa rispettivamente cacciatori e prede, siamo subito informati dell’inconveniente …. il responsabile del parco è andato in ferie portando con sé le chiavi dei luoghi strategici, anche quelle dei bungalow a palafitta con zanzariera che si affaccia ad angolo sul fiume dove avrei tanto voluto dormire. Ma non è finita qui, il diffidente direttore ci ha resa impossibile anche la balade sul fiume ed inutilizzabili le due taniche di benzina che Bruno ci aveva consigliato per questo di portare … i ragazzi però ci propongono subito qualche alternativa, anche per non perdere gli incassi che l’arrivo di due turisti garantiscono loro …. ed a giudicare dal bel sorriso col quale afferrano le provviste che abbiamo portato in omaggio il boss deve aver chiuso a chiave anche la dispensa. Per incoraggiarci a rimanere preparano in fretta la nostra camera dentro uno spartano basso casolare, il pavimento di cemento, una lampadina penzolante dal soffitto ed una piccola finestra…. l’estrema pulizia di lenzuola ed asciugamani sono una bella sorpresa dopo aver visto le loro magliette….. non resta che incamminarci lungo il sentiero che si inoltra tra gli alberi altissimi, dando inizio alla nostra passeggiata esplorativa. Vanni fa il suo ingresso in foresta con gli inseparabili mocassini, un alibi che gli ha sempre consentito di evitare la fatica di lunghe passeggiate in situazioni non comode, questa volta però vince la curiosità e l’improvviso inaspettato desiderio di avventura. E’ così che armato di machete segue il pigmeo che apre il passaggio mentre dietro di noi un bantu in uniforme verde dall’espressione incazzata impugna un fucile primitivo, la canna piegata sul calcio di legno smangiucchiato dalle termiti e sul palmo della mano due cartucce forse usate…. è qui per difenderci dall’assalto di animali pericolosi…. ma quali animali? E’ evidente anche a noi che quando si cammina in quattro sulle foglie secche di animali selvaggi se ne vedono pochi … e che quello che i due ci propongono è un evidente show. Ma gli stop improvvisi ed i brevi ingressi nel fitto della vegetazione ci divertono e ci calano nel ruolo che anche noi ora vogliamo recitare, quello degli esploratori bianchi preceduti e seguiti da uomini neri che in questo caso non trasportano bauli sulle loro spalle… fra radici, semi giganteschi, frutti caduti a terra, qualche scimmia che non resiste curiosa dal rendersi visibile e le cacche degli animali che non vedremo. Rapiti da questo paese delle meraviglie proseguiamo tra i tronchi altissimi e le loro basi massicce, le liane e le foglie sempre diverse, le chiome abbondanti ed i rami secchi, i muschi ed il caos di questo infinito repertorio naturale tante volte immaginato che oggi si è complicato di suoni e profumi.

30 Dicembre 2011

KIKA

La sorpresa è sulla pista verso Kika, racchiusa nella sagoma in movimento che Aminu scorge lontana, quando con il motore spento aspettiamo che succeda qualcosa ma mai avremmo immaginato così tanto. E’ l’animale che quasi nessuno ha visto, il più difficile da individuare, l’unico felino, la pantera! ( panthera Pardus ovvero leopardo). Si muove verso di noi lentamente, gli occhi puntati sull’auto immobile, i nostri odori racchiusi dentro la scatola di metallo rendono la situazione perfetta. Un passo dopo l’altro, con eleganza e fascino, le scapole alternativamente verso l’alto a scandire i suoi passi, il manto maculato del leopardo avanza come su una passerella, seducente e bellissima, snella e fiera. Si ferma, ci osserva, si sposta sull’altro lato della pista, si ferma, annusa qualcosa, mostra un fianco, mostra l’altro fianco, gli occhi gialli sempre puntati su di noi come su una possibile preda, procede lentamente e si ferma ancora, curiosa, indecisa. La osserviamo affascinati con il respiro trattenuto per l’emozione finché non scompare di nuovo, a pochi metri da noi, fra le foglie della selva. Una fortuna sfacciata come sottolineano poco dopo i ragazzi del campo mentre osservano la sequenza di scatti dell’animale al primo posto fra quelli in via d’estinzione. E’ il gorilla che cerchiamo invece ora mentre inseguiamo il pigmeo che si sposta veloce nella foresta. La savana di Bolò è ad un paio di chilometri dalla pista, un’ora di puro piacere e qualche ostacolo da superare in impacciati equilibrismi. Sui rami e sul fango nero e cedevole raccolto in piccole pozze, là dove qualche elefante di passaggio ha lasciato impronte grandi e profonde, sugli alti tronchi di alberi caduti che rallentano il passaggio, nelle radici incrostate di muschi che emergono seminascoste dal fogliame e tra i folti cespugli di rami sottili che come frustini coperti di spine quasi invisibili trattengono le nostre t-shirt, quelli che nessuno ha ancora spezzato e che il pigmeo evita con estrema agilità. E’ il luogo che lui conosce meglio di chiunque altro, quello nel quale ha mosso i suoi primi passi, è la sua casa, il suo elemento ed il machete è l’arma, lo strumento indispensabile per muoversi dentro la vegetazione che si rigenera ad una velocità impressionante. Gli insetti ronzano felici della presenza dei nostri corpi mentre qualche veloce fruscio ci fa rabbrividire, il Mamba è infatti il serpente più velenoso di quest’area geografica e non amando i rettili, tanto meno quelli neri mi concentro sul corso d’acqua di fronte a noi nel quale il nostro sentiero si è arenato. Largo circa quattro metri ma non molto profondo è pur sempre da superare e l’idea di affondare i piedi nella melma scivolosa del fondo ha su di noi un certo impatto. Scegliamo così l’alternativa di una performance di equilibrismo ed imitando l’agilissima guida che ci precede cerchiamo di non cadere dal tronco troppo sottile e contorto che dalla sponda raggiunge il centro del corso d’acqua e di seguito nemmeno dalle due canne di bambù parallele che collegano dal centro l’altra riva. Cedendo infine sotto il peso dei nostri corpi il precario e rudimentale ponticello ci costringe ad affondare le scarpe e le caviglie dentro l’acqua limacciosa e fredda del fiume, tanto valeva guadare! La radura si apre luminosa e verde, coperta di zolle d’erba e delle orme nere e profonde degli elefanti che speriamo di avvistare. Gruppi di palme la delimitano in lontananza ed ancora oltre, a perdita d’occhio, la foresta si stende all’orizzonte in infinite sfumature verdi sulle quali risaltano i rari ciuffi colorati di foglie rosse. Dall’alto della torre di legno instabile e già malandata anche per le spinte degli elefanti che gironzolano abitualmente sotto di lei, solo un’aquila si distingue nera e bianca fieramente ritta sul ramo senza foglie di un albero vicino. Poi un temporale improvviso e la pioggia torrenziale che piega le foglie e allaga la savana, così fitta da rendere ora invisibili quegli alberi lontani. La pioggia assordante ha reso silenziosa la foresta e gli uccelli che prima volteggiavano numerosi in onde disordinate sono scomparsi… la natura sfoggia ora tutta la sua forza in tuoni e fulmini producendo la variazione spettrale dello stesso scenario. I vestiti umidi ed i calzini stesi a sgocciolare sulla precaria balaustra di legno, ci spostiamo lungo il ballatoio riparato della torre cercando di evitare gli scrosci che si spostano a seconda della direzione del vento, stiamo aspettiamo il momento giusto per tornare sui nostri passi, al fiume ora gonfio di pioggia che attraversiamo senza indugio rinunciando al ponticello sempre più precario, immersi nell’acqua fino all’inguine, inzuppati fino alle ossa ci sentiamo due avventurieri… il nostro obiettivo è raggiunto anche senza gorilla o elefanti. Continuiamo la marcia sul sentiero ora immerso nell’oscurità, le torce sulle nostre fronti ed ancora molti ostacoli che ora superiamo senza esitazioni… un pomeriggio indimenticabile.

31 Dicembre 2011

KIKA

La festa dei pigmei si svolge di fronte alla capanna del capo tribù dove bambini, uomini ubriachi e donne scatenate sono disposti in circolo e danzano al ritmo primordiale di tamburi improvvisati. Una moltitudine di bambini riempie quasi completamente lo sfondo circolare degli spettatori che osservano con i grandi occhi spalancati ed i vestiti laceri i virtuosismi di alcune donne che a noi sembrano anziane, ma chi può dire quanti anni abbiano? I visi contratti in canti urlati, i parei arricciati a cresta sui sederi che sembrano imitare le piume ondeggianti di un uccello, si contendono il palcoscenico terroso ora vuoto, ognuna desiderosa di essere la protagonista del mio obiettivo che non sa più dove fermarsi. Incalzato dal ritmo ipnotico dei tamburi un uomo si esibisce ora al centro di quella che è diventata una sorta di arena urlante. Vestito con un gonnellino nero e cavigliere a sonagli, la pelle luccicante di sudore, si muove a scatti come in trance, gli occhi enormi spalancati, il viso contratto in una smorfia ed i muscoli tesi in posizioni alla John Travolta, si avvicina troppo con l’arroganza di chi vuole sfidare la donna bianca e con lei la macchina fotografica. Ciò che colpisce dei bambini invece è la loro tristezza che svanisce solo quando raccolti in gruppi seguono la direzione dello scatto. Fotografarli singolarmente è impossibile perché vedere le immagini sul display è la cosa più divertente che possa accadere loro in questa festa che non li fa partecipare …. poi le dita indicano le figure che riconoscono, gli amici, i fratelli ma non loro stessi i cui visi ancora sconosciuti sono avvolti nel mistero per chi come loro non li ha mai visti riflessi su uno specchio. Intanto una bambina sta sgranocchiando il suo sandalino di plastica rosa, una madre strizza il seno gonfio dentro la bocca del neonato dal viso imbambolato ed un’altra mi avvicina il figlio appeso alla schiena, infagottato dentro una fascia di tessuto legata sul seno, i due visi incollati sullo sfondo di fantasie colorate. Il pathos è in continuo aumento, incalzato dai tamburi e dalle voci che vogliono emergere dal frastuono per accompagnare chi si sta dimenando al centro dello spiazzo. Ora tutti battono le mani ed anche i bambini partecipano ballicchiando mentre Vanni che da un’ora sta registrando il sonoro mi si avvicina urlando quanto gli altri …. gli occhi, fotografa gli occhi! La cena sfiziosa a base di squisitezze francesi è il lieto fine di questo originalissimo capodanno!

02 Gennaio 2012

KIKA

La squisita ospitalità dei francesi del campo si esprime questo pomeriggio con la balade sul grande fiume Ngoko le cui acque color nocciola scorrono lente costeggiando la nostra collina. Nella piroga che lo attraversa le magliette colorate dei tre passeggeri risaltano sullo sfondo sbiadito dalla foschia mentre sulle due rive i pescatori aspettano che le loro lenze tese si muovano finalmente con un bel pesce moribondo all’amo… non c’è nient’altro. Procediamo al centro, il rumore del motore come unica nota stonata nel silenzio totale. la Repubblica Popolare del Congo è a pochi metri da noi, sull’altra riva, una immensa massa verde con qualche fiore rosso, identica a quella esplorata per giorni, la stessa con due nomi diversi, non più vergine ma ancora nera, accessibile solo per una breve visita ai villaggi vicini. Senza strade ed isolatissima la si raggiunge dalla capitale Brazzaville solo attraverso un fuori strada lungo più di mille chilometri e poi via fiume da Quesso, è certo che la vedremo solo da qui. E’ una strana sensazione quella di avere di fronte agli occhi la nazione che raggiungeremo fra un mese, dopo il Cameroun ed il Gabon, dopo foto, visi, situazioni e molti chilometri da percorrere, una illusione che ci fa sorridere, come quella che accompagnò i tedeschi nella realizzazione di questo ponte mai terminato. E che dire dell’originale look dell’alto signore che vestito con un vecchio impermeabile inglese color panna sta pescando tenendo in mano una sottile canna di bambù? mi saluta con un cenno tenero e dolce ed un bel sorriso, così insolito qui in Cameroun. Ci sono anche due grandi zattere costruite inchiodando strati di assi appena sfornate dalla segheria, saranno ulteriormente caricate con legno di scarto e scenderanno sfruttando la corrente del lungo fiume fino a Brazzaville dove tutto sarà venduto, zattera compresa, ma per il momento un paio di signore lo stanno usando come pontile per un comodo bucato in piena corrente. Al villaggio di casette di legno c’è una moschea, alcune moto decorate con fiori di plastica sul manubrio, piccoli bar con due sedie sulla strada polverosa, un magazzino dove si macina la manioca ed una parrucchiera che sta confezionando trecce sulla testa di una cliente nel piccolo vano aperto sulla strada. Un bambino spunta dal rottame di un’auto dimenticata fra due case, due capre sono stese accanto ad un barile vuoto usato come braciere, un generatore rompe il silenzio di questo tardo pomeriggio senza elettricità…. solo dopo il tramonto il villaggio risplenderà di luce artificiale. Il piccolo negozio del giovane barbiere ha il sapore di una vecchia discoteca di paese completa di musica a tutto volume che rimbomba sulle pareti coperte di poster a tema. Con grandi grandi cuffie verdi alle orecchie e pantaloni lucidi, neri ed attillati il ragazzo armato di rasoio si dimena come un cubista attorno a Vanni che pietrificato sulla poltroncina teme il peggio…. che spatacco!

03 Gennaio 2012

KIKA – MINDOUROU – YAOUNDE

L’auto corre veloce sulla pista rossa immersa nella selva, quattrocento chilometri in otto ore danno la misura della prodezza dell’autista e della velocità con la quale sfumano i sospirati gorilla ed i pigmei alle nostre spalle, il Congo e la collina con lo chalet di foresta. Sette giorni di isolamento sono stati tanti per noi ed ora abbiamo voglia di asfalto e di Gazelle appena uscita in gran forma dalle amorevoli cure di un meccanico portoghese di Mindourou. Ancora centoquaranta chilometri e tre ore di sterrata, di uomini coperti di polvere aggrappati sul retro di minibus in viaggi al limite della sopravvivenza, foglie di banano, capanne, bambini ed eccoci immersi nel silenzioso asfalto della strada maestra a discutere con i soliti poliziotti corrotti ed a comprare Pangolin da salvare, i camion rovesciati in improbabili fuori strada non lasciano dubbi sul fatto che la prova del palloncino serva a qualcosa. Poi per un caso fortunato evitiamo gli imbottigliamenti della capitale ed atterriamo al nostro confortevole hotel. Domani saremo a Kribi, sull’oceano Atlantico che speriamo lontana dalla Rimini che la guida cita, come se la similitudine potesse allettare chi è arrivato fin qui.

05 Gennaio 2012

YAOUNDE – KRIBI

Lontana anni luce dalla Rimini che avevamo temuto di trovare Kribi è una cittadina come tante altre, senza nulla che la distingua se non i nuovissimi spartitraffico e le belle spiagge che l’hanno resa la più famosa località balneare del Cameroun. Oltre il ponte ed il porticciolo nel quale galleggiano un paio di motoscafi, separate dalla strada da gruppi di palme e rocce scure, le spiaggette di sabbia chiara ci invitano ad avanzare lungo la strada costiera che prosegue sterrata nella selva promettendo situazioni più selvagge e lontane dal caotico lungomare. Oltre lo spesso strato di vegetazione che introduce alla spiaggia, nascoste dal cancello di legno semiaperto le casette circolari dell’hotel Ilomba sono immerse nella bassa vegetazione di aiuole fiorite dove un gallo artritico di vecchiaia, adattatosi al ruolo di decrepita mascotte passeggia sugli stretti percorsi come il re di un pollaio senza galline. La porta aperta sul letto di legno scuro, la vecchia maschera alla parete, due ibiscus rossi sui cuscini, la zanzariera, ed il soffitto a graticcio rendono la nostra camera bellissima e questo non hotel il miglior luogo dove rimanere piacevolmente qualche giorno di fronte all’oceano, sulla spiaggia che inizia a pochi passi dal muro bianco ingentilito dalla fioritura che sale azzurra e bianca. L’impeccabile bar sulla sabbia diventa presto l’epicentro dal quale partono le lunghe passeggiate lungo le anse che seguono e precedono, falci bianche separate da gruppi di rocce, le nostre orme si disegnano accanto alle prue appuntite di grandi piroghe di legno, vicine ai pescatori che riparano le reti e ad una vecchia macchina da cucire Violet, diventata per l’occasione un affascinante blocco di ruggine usato come originalissima ancora. Corpi perfetti e vellutati, bambini e qualche toy boy si delineano sullo sfondo di lontane piattaforme di estrazione difese da navi da guerra. Nella direzione opposta invece, sullo sfondo della vegetazione rigogliosa, ci sono le rare baracche di legno dove i locali bevono birra e mangiano pesci appena pescati. Le sfioriamo indifferenti, ancora lontani dal sentirci nell’Africa che abbiamo amato, autoghettizzati in situazioni non nostre, come quelle degli amici che dopo anni di difficile convivenza sono sfiniti da questi furfanti che rubano non appena ne hanno l’opportunità. E che dire della nostra esperienza diretta con Albert, un beach boy che oltre ad averci scucito 5000 CFA ci ha rubato anche i dadi dei quali doveva fare qualche copia… passi per il denaro, ma come faremo ora a giocare a backgammon? E’ anche per questo che raggiungendo la vicinissima cascata, interessante solo per la caduta delle sue acque dolci nell’acqua salata dell’Atlantico, abbiamo evitato il mercatino per turisti ed i quadri tutti uguali di fronte ai quali ragazzi col pennello in mano facevano finta di esserne gli autori. Lontani dall’integrarci stiamo costruendo barriere che non avevamo desiderato, sempre più vicini ai molti bianchi insofferenti sfiniti dal continuo tormento di questa Africa… mi sto chiedendo perché siamo ancora qui, e dove è finito lo spirito di avventura che ci ha sempre accompagnato nei nostri viaggi. Fra due giorni sarà il Gabon e forse l’apertura.


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15 Gabon


10 Gennaio 2012

KRIBI – BITAM

Lasciamo l’Ilomba di Kribi dopo una colazione in compagnia di uccellini colorati, impazienti di raggiungere la città che sarà per noi trampolino di lancio verso il Gabon, la patinata Ebolowa. Scartata l’ipotesi di percorrere la strada diretta che la collega in linea retta a Kribi, forse impraticabile dopo la stagione delle piogge anche se nessuno ne ha notizie certe, procediamo a ritroso sulla strada che dopo Edea e Yaounde punta a Sud fino a raggiungere il confine gabonese. In posizione strategica a circa ottanta chilometri dalla frontiera, il suo aspetto giustificato dal ruolo di città natale del presidente è preceduta dalla strada bordata da ordinati giardinetti e da case decorose seppur modeste, pensavamo di raggiungerla nel tardo pomeriggio, ma sono solo le due ora, troppo presto per fermarci e troppo pressante il desiderio di lasciare in fretta il Cameroun per il promettente Gabon, è così che nonostante il proseguire possa significare dormire in tenda dietro ad una interminabile fila di camion in attesa andiamo oltre felici dell’incertezza di una situazione forse scomoda ma finalmente non prevista. Il piacere del viaggio ci accompagna ora con un sorriso sulle labbra fino alla sbarra rossa e bianca di fronte alla quale per la prima volta nella nostra esperienza di viaggiatori siamo soli. La sorpresa ci spiazza così tanto da credere di aver sbagliato qualcosa e solo la richiesta dei passaporti da parte del doganiere solitario, gentile ed annoiato seduto dentro alla baracca di legno, unita ai timbri d’uscita che per carenza di inchiostro imprime con forza sui nostri passaporti ci danno la certezza di aver guadagnato un giorno e risparmiato un discreto stress…. un lieto fine che risolleva leggermente la considerazione che abbiamo del Cameroun. Altri tre chilometri e siamo dentro, venti minuti spesi e nemmeno una valigia aperta, un successo! L’hotel Benedicta è senz’altro il migliore di Bitam dice il doganiere gabonese dopo aver superato l’ostilità iniziale perché affascinato dai numerosi visti sui nostri passaporti, un sei stelle, conferma orgoglioso del fiore all’occhiello della cittadina. Isola emergente, nuovissimo e neoclassico è abbastanza pacchiano da giustificare la collaborazione fra il finanziatore russo e la Boss locale della quale ha preso il nome, la camera è grande pulita e confortevole nonostante l’odore di naftalina abbia in pochi minuti contaminato il contenuto dei nostri trolley, sarà come dormire in un armadio!

11 Gennaio 2012

BITAM – LIBREVILLE

Maleodoranti e sereni scivoliamo come su un fondo burroso verso Oyem. Attorno a noi il sobrio decoro di capanne ben tenute, siepi e sorpresa delle sorprese uomini al lavoro. Persino le signore si sono emancipate sostituendo con gerle appoggiate alla schiena le classiche tinozze in bilico sulla testa scongiurando così i terribili dolori cervicali, dulcis in fundo il diverso atteggiamento da parte degli integri poliziotti i cui incontri sono diventati per noi quasi piacevoli soste, un altro mondo? Senz’altro si rispetto a ciò che troviamo dopo circa trecento chilometri, là dove la bellezza dei tunnel creati da grandi cespugli di canne di bambù non compensano le cattive condizioni della strada né gli smottamenti di fango dai rilievi dilavati dalle piogge. Intanto i villaggi hanno recuperato il calore ed il vivace casino di sempre, le auto senza fanali e come noi senza clacson continuano ad andare fuori strada ed i topi di foresta ciondolano oltre il bordo strada in vista di qualche acquirente. Infine centocinquanta chilometri di crateri sostituiscono il tappeto rosso che pensavamo di trovare nei pressi della capitale Libreville in vista degli imminenti campionati d’Africa che si terranno tra pochi giorni. Dopo l’intensa, piacevole giornata di viaggio raggiungiamo infine l’hotel in tempo per una cena tardi tra uomini d’affari europei, hostess Air France ed i corpi atletici di calciatori arrivati in città per gli allenamenti. Nella hall le prostitute sono al ribasso e discretamente invisibili ma non i toy boy gay che sembrano aver conquistato il mercato locale. Bella camera con arredi anni settanta, vista oceano ed una fantastica nottata.

12 Gennaio 2012

LIBREVILLE

Gazelle ancora in restauro presso l’officina Toyota ci sarà restituita in tempi brevi … non certo per lo zelo delle maestranze locali, ma per la fantasiosa idea di Vanni calatosi per l’occasione nel ruolo di reporter televisivo italiano in capitate per documentare i campionati di calcio …. vuoi per il suo francese incomprensibile che per la bugia così verosimile da non poter essere messa in discussione, fra qualche giorno potremo lasciare Libreville. Non resta che raccogliere informazioni per le visite ai parchi nazionali, Il Loango ci stuzzica particolarmente per la promessa dell’avvistamento di ippopotami che surfano sulle onde dell’oceano …. rinunciare sarebbe una follia! Sfuma invece presto il progetto della visita al Parco Lopé pensata per evitare che il soggiorno forzato a Libreville possa diventare tedioso. Ma il costo di 800.000 CFA che i taxisti ci propongono per il noleggio di un 4×4 con autista ci sembra eccessivo per i 250 km da percorrere, si tratta pur sempre 1.200 €! Dopo alcune estenuanti contrattazioni non essendo valse a nulla tutte le bugie del repertorio, ormai è deciso, preferiamo a quella dei taxisti la rapina da parte dell’hotel, ormai è un fatto d’onore!

14 Gennaio 2012

LIBREVILLE

Salgo sulla prima Toyota Corolla disponibile senza obiettivi da raggiungere, Libreville non è una città vivace e non c’è nulla di veramente interessante da vedere conferma il taxista con un lieve imbarazzo, se non un sincero degrado. Il cielo è ancora coperto, l’aria è calda ed umida e c’è una chiesa che si impenna in alto come uno scivolo, un pretesto per scendere e scattare due foto tanto per dare un seguito alla mia iniziale curiosità ed un inizio alla passeggiata fino al mare ed al vicino palazzo presidenziale che lo fronteggia. Scatolare e marcato da una texture verticale che crea un delicato chiaroscuro color avorio, gli dedico un paio di foto che so già finiranno cestinate non appena le rivedrò stesa sul letto della camera in penombra, inconsapevole che la loro eliminazione avrà inizio molto prima, qualche istante dopo averle impresse sulla scheda di memoria ed aver mosso pochi passi sul marciapiedi che corre parallelo, quando una serie di schiamazzi e fischi sempre più insistenti attirano la mia attenzione. E’ solo dopo il “madame” urlato concitatamente che mi rendo conto di essere in pericolo, sotto il tiro del fucile che il militare accovacciato dietro l’inferriata del palazzo ha puntato contro di me. Ad un suo cenno mi avvicino senza esitare, allontanando il pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se infine non mi fossi girata, se non avessi prestato attenzione continuando ad ignorarlo camminando tranquilla sotto il sole che ha finalmente bucato le nuvole. Il palazzo presidenziale ed i ministeri adiacenti non devono essere fotografati mi dice … pena la morte? Spazzate via le due foto e con esse l’emergenza militare impazzito continuo a passeggiare sul lungomare accanto al prato verde con panchine blu, alla ricerca di quegli edifici anni ’60 che avevo notato dai finestrini del taxi, la pensilina d’onore che ospita il presidente in occasione delle parate militari ne è un esempio. Inserita in un contesto che ha finito col soffocarla e malandata per le scarse opere di manutenzione, ha il look di un bell’oggetto dimenticato lungo la strada. Il museo di Arte e Tradizioni invece risalta stagliandosi sul grigio della spiaggia e del mare del quale sembra il prolungamento, come la cresta di un’onda di vetro e metallo. Introdotto da una grande caffettiera bidimensionale di metallo ossidato varrebbe la pena visitarlo se non fosse per i restauri in corso …. e la censura che ancora si abbatte su di me e che finisce col sabotare ulteriormente il mio reportage che non decolla. Nessun fucile questa volta, è un signore che si presenta come il direttore del museo a dirmi seccamente che le foto scattate finora sono le ultime che potrò mostrare agli amici…. che stress, la chiusura nei confronti dei bianchi si legge anche sui visi di molti, in contrapposizione a quelli che invece mi lanciano un cordiale “bonjour”. Tutto sommato non stupisce che nel 1990 nei dintorni della cittadina di Oyem siano stati uccisi i rappresentanti di un corpo di pace… oggi quasi facevano secca anche me! Il meritato relax di coppia arriva solo più tardi al ristorante “ Dolce vita” quando seduti al nostro tavolo in posizione strategica sul fondo di un pontile vetrato godiamo della prospettiva del lungo mare illuminato oltre che della simpatia delle vivaci cameriere.

15 Gennaio 2012

LIBREVILLE

La visita di Vanni all’ambasciata italiana ci consente oggi di scoprire una parte di città al quale i locali non sembrano attribuire il merito di valere una visita… nessuno ci ha mai proposto una sbirciatina al quartiere Democracie! Recintato e protetto da militari raccoglie la maggior parte delle ambasciate immerse nel verde di una collina ed è collegato alla città da un’ ampia strada oggi deserta. Ai due lati trovano posto gli edifici rappresentativi del governo della repubblica e la banca nazionale ospitata all’interno di un edificio alto e sottile flesso in un movimento ad arco. Elegante e bello si distingue dagli altri, originali ma stucchevoli ed assolutamente non fotografabili se non elemosinando al militare di turno con la lusinga di poter posare per un primo piano con l’edificio sullo sfondo, oppure rubando una foto da lontano, mimetizzati dietro la siepe. Vanni mi mostra tutto con la soddisfazione di chi sta facendo un gradito regalo … e lo è in questa Libreville che semina noia, lo adoro. Il gran finale arriva più tardi, quando sazi di cibo e di coccole osserviamo oltre la parete vetrata di fronte al letto uno spettacolare temporale, una tempesta magnetica intensa e scoppiettante i cui bagliori che sembrano non interrompersi mai disegnano ombre dentro la scatola che ci contiene, uno spettacolo tra i più belli che la finestra di una camera ci abbia mai regalato, un virtuosismo pirotecnico senza miccia, bello forse come quelli che ispirarono Handel nella composizione della sua celebre sinfonia dedicata ai Fireworks appunto.

16 Gennaio 2008

LIBREVILLE – NJOLÈ

Come quella di due elastici tesi da giorni la nostra energia esplode poco dopo il risveglio per una serie di impegni accumulatisi prima della partenza… un controsenso considerando il tempo che abbiamo avuto a nostra disposizione, ma il momento non è mai stato prima di questo quello giusto! La definizione della prenotazione al Parco Loango, e di due hotel a Lambarené, il ritiro di Gazelle dall’officina Toyota e l’acquisto del soggiorno al Parco Lopé presso il Dipartimento Generale del Parco, il tutto nel brevissimo tempo compreso tra la colazione ed il check out dell’hotel, tassativamente entro le ore dodici. Come sempre la nostra fretta inciampa sul computer del Dipartimento così lento da sembrare malato di malaria, e sul taxista che impiega un tempo infinito per decidere quanti CFA scucirmi. Il trolley è ancora da chiudere. E’ con vero piacere però che predisponiamo il nostro definitivo congedo dal Le Méridien e da Libreville e che affrontiamo nella fuga dalla nostra noia i sussulti degli ottanta chilometri di groviera fino a Kango. Poi il rumore svanisce, l’asfalto diventa liscio e tutto attorno a noi torna visibile mentre proseguiamo in sinuosi saliscendi tra le basse colline inghiottite dalla vegetazione, accanto ai corsi d’acqua che smunti dalla stagione secca scoprono piccole spiagge di sabbia bianca e le rocce scure degli alvei. Qualche centro abitato è cresciuto nei punti più battuti dalle strade principali, altrove gruppi di capanne formano piccoli borghi, in entrambi i casi la strada coincide con il mercato, il luogo nel quale ognuno vende qualcosa, dal quale nessuno sembra lavorare. Il commercio prosegue anche allontanandosi dai centri principali, di fronte ad ogni capanna cresciuta a ridosso della foresta, dove poche radici di manioca, un casco di banano, grappoli di semi di palma raccolti dietro casa, regalati dalla natura rigogliosa, sono appoggiati con semplicità su assi di legno annerito dal tempo, in bilico su bidoni di metallo arrugginito, oppure stesi direttamente a terra. In avvicinamento al Parco Lopé che non raggiungeremo oggi, il nostro ritardo ci regala una sosta a Njolé, il vivace paesino raggrumatosi all’incrocio tra la strada ed il grande fiume. Osservo la riva opposta, la spiaggia di sabbia candida e l’acqua limacciosa che scorre lenta sotto di noi dalla rudimentale terrazza con vista dietro la baracca di legno rosa. Due panche di legno, una birra e qualche parola scambiata con i due signori che stavano confabulando sopra a fogli stampati, la lampadina avvitata ed accesa solo all’imbrunire ed il bel tramonto fanno di questo uno dei più simpatici aperitivi di questo viaggio. Oltre la porta la magnifica vivacità inonda la terra battuta e l’aria vibra attorno alle casse nere che sparano a tutto volume musica disco sul centro abitato. Vanni è a pochi metri dalla mia seconda birra, osserva affascinato Desmond, un ragazzo indaffarato sul cofano aperto di Gazelle. Sostituisce un raccordo elettrico danneggiato con uno recuperato da una lavatrice rottamata. Felice di poter di nuovo colpire a clacsonate gli automobilisti imbranati ed affascinato da Desmond che con pochi mezzi e molta fantasia è riuscito a risolvere il problema, paga senza esitare la fortuna che gli viene chiesta, la genialità va premiata! Una signora obesa e burbera ci accoglie poco dopo al Papaye, l’albergo più pulito del paese dove la camera spoglia ma pulita, con aria condizionata e boiler nel lungo corridoio rosso e avorio ci piace anche se non ci mette abbastanza a nostro agio da farci decidere a togliere le scarpe, infilarci sotto la doccia e poi sotto le coperte, in questi casi ci vuole del tempo per rompere il ghiaccio! La cena è in linea con l’aperitivo e la camera, cambia solo il colore della casetta ed il suo affaccio, non più sul fiume ma in sequenza sul marciapiedi polveroso affollato di gente allegra di birra, sulla fognatura a cielo aperto e la strada a quest’ora non molto trafficata. Spaghetti scotti con carne o pesce ma niente birra per noi ospiti di un oste musulmano.

17 Gennaio 2012

NJOLÈ – PARCO LOPÈ

Rompiamo il secondo foglio di balestre lungo la sterrata in ottime condizioni che deviando dalla RN2 conduce al parco Lopé. Niente di strano, l’effetto grader è deleterio per le auto in via di estinzione! Il paesaggio cambia dopo una cinquantina di chilometri, quando la luce intensa del sole si sostituisce alle tenebre della foresta ombreggiata e scura ed ampie savane svelano morbide ondulazioni finora solo immaginate. I colori sfumano dal delicato verde acido ai toni più scuri della foresta ormai lontana ed un lungo ponte metallico attraversa rocce scure e spiagge bianche lambite dalla corrente del fiume. Infine, calate sull’erba della savana, le poche casette color rosa sbiadito dell’Annexe al sontuoso Hotel Lopé introducono al parco. Ora siamo a bordo di un fuoristrada da safari, sulla testa un paio di cappelli color caki con visiera e copricollo sventolante, ridicoli e rilassati di fronte ad una pozza melmosa dove decine di bufali sono allegramente intenti a ricoprirsi di fango ed un paio di elefanti lontani pascolano incorniciati di alti alberi rossicci. L’avvistamento più emozionante ci sorprende sulla strada del ritorno quando un elefante di foresta avvinghiato ad un arbusto carico di succulente foglie si delinea improvvisamente illuminato dai fari del nostro fuoristrada. Muovendosi infastidito verso di noi mette in allarme l’autista che dopo una breve fuga in retromarcia pone fine allo strano minuetto facendo ruggire il motore e superando di lato. L’elefante è ora alle nostre spalle, la silouette in movimento si staglia nera e magnifica contro la luce dell’auto che segue, si chiama Willy e sta godendosi la libertà da poco conquistata dopo un’infanzia da orfanello cresciuto in cattività. Un gran finale che ci ha lasciato a bocca aperta.

19 Gennaio 2008

LAMBARENÈ

La signora trasandata che mi porge la chiave della n°2 solo dopo aver ricevuto i 25.000 CFA ci introduce all’Hotel Ozigo, africano verace ed incastonato fra gli edifici della strada principale ha pareti sporche, tre preservativi sul tavolino, aria condizionata, un piccolo televisore chiuso dentro una gabbia metallica a prova di furto ed un letto, per oggi andrà benissimo. Il vicino mercato è un imbuto pulsante nel quale mi intrufolo in cerca di un pareo introvabile ma che un disponibile sarto piccolo, magro e con il classico metro al collo è disposto a confezionarmi in pochi minuti, peccato che i tessuti siano plasticosi come le bacinelle che colorano le bancarelle di alcune signore in abiti tradizionali, spudoratamente ostili alla mosca bianca che svolazza da un ombrellone all’altro curiosa di sapere cosa sono quelle piccole pietre grigie e i panetti cilindrici e scuri che accatastati uno sopra l’altro occupano parte dei loro banchetti di legno…. cioccolato? sembra impossibile. Poco oltre, là dove la rampa inclinata scende immergendosi nell’acqua del fiume e l’odore di pesce riempie le narici, alcuni ragazzi battono pesci grandi e squamosi su trespoli di legno. I polpacci nascosti nell’acqua ed i muscoli gonfi per lo sforzo di gesti ripetuti, timidi e curiosi quanto me abbozzano amichevoli sorrisi mentre sbatacchiano i “senza nome”, come li chiamano i locali, ammucchiandoli poi a terra accanto ai miei piedi, molli come invertebrati sono pronti per essere essiccati a cavallo di bastoni di legno accanto ai caimani del Nilo decapitati e già pronti per la vendita …. è questo il luogo dove il mistero dei panetti viene svelato da un paio di labbra gentili in vena di raccontare …. avevo capito bene, si tratta di cioccolato ma di foresta. Si prepara pestando nel mortaio semi di frutti molto simili ai mango, la poltiglia che se ne ricava viene poi cucinata in padella e pressata in cilindri, somigliante a quello in vendita nei supermercati solo per il suo colore bruno, ha il sapore intenso di un concentrato di pomodoro e viene grattuggiato sui “senza nome” secchi e fritti per renderli accettabili a chi non ha molto altro da mangiare …. E’ un pesce povero infatti e poco apprezzato dai locali che preferiscono venderlo ai congolesi che ne vanno pazzi. Arrivato come un flagello dal Chad, aggressivo, goloso di uova e molto prolifico regna incontrastato nelle acque dolci di tutta l’Africa Centrale che ha colonizzato attraverso un ampio reticolo di corsi d’acqua comunicanti. Dopo la lezioncina, con le scarpe incrostate di squame seguo a ritroso la scia di odori che sfumano da quello pungente del pesce secco al profumo delicato della frutta e raggiungo l’hotel ancora presa di mira dagli sguardi torvi delle signore sempre più incazzate.

20 Gennaio 2012

LAMBARENÈ – PARCO LOANGO

L’Oceano Atlantico ha regalato al Parco Loango un magnifico lungo tappeto di sabbia bianca che lo ha reso unico e bellissimo, un obiettivo così stimolante da far passare in decimo piano il lungo viaggio per raggiungerlo lungo i 250 km che da Yombi portano al mare. Particolarmente disastrata, negli ultimi 100 km la sterrata si complica con profondi solchi scavati nella terra sabbiosa dalle piogge dei mesi scorsi e da quelle degli anni passati, un percorso difficile che ci regala comunque il piacere dell’immersione nella foresta, nelle erbe officinali che crescono sui bordi della strada, nei due meravigliosi ragni appoggiati alle foglie di un arbusto, colorati e forse pericolosissimi ed infine il piacere di un giardino botanico creato da un signore delicato e gentile che mi porge un bellissimo regalo, un mazzo di fiori carnosi e colorati che farebbe andare in delirio qualsiasi donna, il più bello, il più pesante e voluminoso che a fatica riusciamo ad inserire nel fuoristrada! Lo spettacolo delle aiuole fiorite è strepitoso ed inutile qualsiasi tentativo di descrivere la bellezza dei rosa, rossi, arancio, verde, bianco e viola che prendono la forma di corolle carnose e rigide o di soffici pon pon e di lunghi becchi appesi a grappolo. E’ sera quando raggiungiamo il Lodge Gavilo già immerso nella penombra che segue il tramonto, appena visibile come la laguna di fronte che sta scomparendo nell’oscurità della notte. Peccato che la lampadina penzolante dal soffitto renda invece visibile lo squallore del bungalow che ci è stato assegnato, decisamente sotto tono rispetto alla piacevolezza del lodge ed alla squisita ospitalità del personale che non potranno compensare il tedioso dormiveglia sulle assi coperte da un materasso troppo sottile, né il disagio per i due ragni neri e carnosi che vivono nella nostra camera. Niente amore ma solo l’incazzatura di aver speso per questa graticola l’equivalente di un comodo giaciglio cinque stelle.

22 Gennaio 2012

PARCO LOANGO

Il paradiso è attorno a noi mentre a bordo della piccola lancia solchiamo la superficie immobile della laguna, l’aria fresca della mattina presto ci dà una sferzata di energia e qualche brivido e la foresta ci raggiunge riflettendosi sull’acqua come su uno specchio. Nessun rumore, solo il silenzio, noi ed il vento fra i capelli mentre esploriamo le propaggini verdi e le secche di sabbia bianca viaggiando lungo gli ampi canali che sfiorano isole di foresta. Il piacere cresce e noi ci abbandoniamo alla forza di questo fantastico paesaggio incontaminato, l’oasi degli animali che vedremo nelle piccole savane nascoste da anelli di vegetazione. Gli approdi sono lungo la costa frastagliata e densa di cespugli debordanti, invisibili fra le radici delle mangrovie, nei piccoli triangoli di sabbia dove la prua si inserisce arenandosi. Oltre la breve salita c’è l’ erba dorata della savana che si snoda ad arco in un lungo tappeto, è cosparsa di sottilissimi steli che ondeggiano radi alla minima brezza, il cibo preferito da elefanti e bufali, la selva che le dà forma è la camera da letto degli animali ed il loro rifugio e la possibilità di vederli è proporzionale al loro appetito che ha un picco nel tardo pomeriggio. Se è vero che gli elefanti brucano per sedici ore al giorno si tratta solo di trovare l’angolo di savana prescelto da alcuni di loro per uno spuntino. Ci sono invece un paio di bufali con il muso a terra e le scapole alte e ben tornite, le corna arricciate verso il dorso hanno sentito il nostro odore ed ora ritti hanno allargato le orecchie e ci osservano. L’emozione cresce quando entrambi si girano verso di noi, curiosi, spaventati o incazzati?… tutte le tre cose in veloce sequenza e così dopo qualche passo incerto ci caricano correndo verso di noi. Sono meravigliosi mentre due nuvole di polvere salgono sotto i loro zoccoli ed i corpi possenti si muovono verso di noi in un galoppo serrato scandito dal rumore di zoccoli che colpiscono il terreno, ma la guida sa come fermarli e scattando verso di loro li spaventa e li disperde … ed ora trottano tranquilli fino a sparire inghiottiti dalla vegetazione. Sono pericolosi solo se feriti, ma come saperlo prima di averli addosso? Al ritorno da una breve passeggiata, nei pressi del nostro approdo vediamo un gruppo di sette elefanti che stanno beatamente deliziandosi con mazzi di erba fresca, le zanne verso il basso, le grandi orecchie che sventolano verso la schiena per scacciare gli insetti e la proboscide che si arriccia verso la bocca carica di ciuffi dorati seguendo lo stesso ritmo lento dei loro brevi passi. Rilassati e rilassanti come un ansiolitico di savana. Il vento a favore unito alla loro miopia ci consente di avvicinarci abbastanza da vedere i due piccoli appena visibili dietro le zampe degli adulti che si muovono in fila dietro al più anziano, maestoso, elegante e lento rispetto ad un potenziale di 60 chilometri orari. Le scimmie sono le protagoniste del nostro safari ormai agli sgoccioli solo al tramonto quando salite in cima alle palme per mangiarne i cocchi si sono poi precipitate verso il basso in discese rocambolesche al grido di un’aquila predatrice…. ad ognuno i suoi nemici!

23 Gennaio 2012

PARCO LOANGO

La lunga fascia sabbiosa ricoperta di foglie e rami sottili protegge la selva dalle mareggiate dell’oceano mentre la bassa vegetazione che vi dimora, condita del sale vaporizzato dalle onde, è per gli animali una dispensa di sali minerali, una farmacia di fronte al mare, il luogo ideale per gli avvistamenti. Per questo siamo qui oggi, a passeggiare sul bianco che scricchiola sotto i piedi, sul largo bagnasciuga deserto in leggera pendenza. Una spiaggia vergine e meravigliosa dove anche il grande parabordo giallo arenatosi diventa un elemento scenografico persino bello, una nota di colore tra le sfumature delicate del paesaggio. Tronchi perduti da navi da carico, tappi di plastica di acque Canadesi e Giapponesi, una zattera di canne di bambù appena visibile tra la sabbia ed imbrigliata in una rete di plastica turchese, belle conchiglie arricciate ed il suono del mare. Ci sono solo un paio di bufali a brucare in questa stupenda infermeria, gli uccelli neri che stanno ripulendo i loro dorsi, le uova di tartaruga nascoste sotto mucchi di sabbia e stranamente uno scoiattolo che per lo spavento corre a scatti sulla sabbia. Gli ippopotami che ci eravamo illusi di veder surfare sulle onde dell’oceano non li ha in realtà mai visti nessuno così come il piccolo caimano del Nilo che la nostra gracile guida dovrebbe afferrare e sollevare fuori dall’acqua, come se ci fosse bisogno di questo per apprezzare l’incantevole parco Loango. Il copione di questa sera prevede infatti la messa in scena di un emozionante spettacolo del quale noi saremo spettatori, la foto più bella del viaggio da mostrare con orgoglio agli amici dice il dott. Ndalia, proprietario del Lodge Gavilo. Il raggiro inizia fin dall’aperitivo, il primo in sua compagnia, che si protrae così a lungo da far slittare la cena di quasi un’ora e prosegue dopo l’emozionante lunga corsa nella laguna rischiarata solo dalla luce delle stelle. Afferrata la sua torcia Aimé inizia poi a recitare il suo ruolo di protagonista gettando fasci di luce sulla costa di una piccola insenatura dove i caimani dovrebbero riprodursi. Gli spot di luce hanno continuato a colpire inutilmente i grovigli di radici di mangrovia per circa un’ora e per rendere più credibile la messa in scena il povero Aimé si è poi esibito in una performance di equilibrismo spingendosi su un tronco flesso verso l’acqua dal quale poter osservare meglio. Assonnati e sollevati che si trattasse solo di una burla rifilataci come regalo di commiato, scherzetto che ci ha risparmiato di assistere ad eventuali spargimenti di sangue, rientriamo gratificati dalla ballade notturna dove visibili sono stati solo il solco chiaro della nostra lancia sull’acqua ed il profilo nero della foresta che abbiamo intravisto scontornato dal cielo. Peccato per la non necessaria presa per il culo e per i 1.600 € spesi per un soggiorno di due giorni e tre notti, bevande escluse.


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16 Congo


26 Gennaio 2012

LAMBRARENE’ – NJANA

Sono le otto del mattino ed il Congo il nostro obiettivo, le probabilità di raggiungerlo una incognita variabile a seconda delle condizioni della strada che troveremo per raggiungerlo un mistero per noi come per tutti gli intervistati. Ci avviamo così nell’incertezza tra il doverci fermare a Ndende a soli 270 km da qui o raggiungere la frontiera e proseguire fino a dove ?… procediamo aperti a qualsiasi possibilità. Raggiungiamo Ndende quasi senza accorgerne, la strada asfaltata fino a M ci aiuta infatti a fare un bel balzo in avanti così come la sterrata rossa ma in buone condizioni che arriva a Ndende, paesino assolato e polveroso che precede la frontiera ed il cui hotel rimane per noi una immagine bidimensionale con una insegna che non leggiamo passando. Sono solo le due del pomeriggio ed il confine a soli 45 km va da se che passiamo oltre lasciando alle nostre spalle anche il ricordo delle troppe scimmie appese in vendita lungo la strada, come borsette morte da ore, gli occhi aperti in espressioni di sgomento e sofferenza come se la morte fosse arrivata troppo lentamente sui piccoli corpi. La sbarra di uscita è in piena campagna, vicina ad un gruppo di alberi ed allo spiazzo di terra battuta delimitato da poche case dove una moltitudine di bambini giocano urlanti. Didier si muove verso di noi al rallentatore, con l’arroganza di chi ha potere e lo vuole far pesare tutto. Mimetica e stivali ne esaltano il corpo muscoloso ed i suoi polpacci sono quelli di un ex calciatore della nazionale congolese. Edonista e vanitoso si distende con un sorriso sulla sua poltroncina e sorride compiaciuto di fronte al mio stupore per la Tv LCD che riempie la modesta stanzetta, poi calatosi di nuovo nel ruolo di doganiere corrotto, con rinnovata arroganza mi chiede il lasciapassare che avrei dovuto procurarmi a Ndende…. Per fortuna è un buono e letteralmente si scioglie di fronte al regalino che Vanni gli porge affacciandosi alla finestra, un pallone è l’ideale per un calciatore ed arriva giusto in tempo per scongiurare la tragedia appena annunciata. In fondo aveva solo voglia di fare due chiacchiere e di non sentire il peso dei nostri diversi colori… e perché no, di fare sfoggio della sua virilità raccontandomi perché ha quattordici figli e crogiolandosi all’idea che avrei potuto far parte del gruppo di fan disposte a tutto pur di averlo nel letto …. chi può saperlo è proprio un gran bell’uomo! Pacca sulla spalla e via, 20 km di sterrata con inserimento del 4×4, altri 25 in buone condizioni e siamo di fronte all’ ”hotel du fleuve Nyanga” nel quale non dormiremo pur avendo pagato la camera, lasciare Gazelle incustodita sarebbe un inutile rischio ed usare un bagno senza acqua corrente e infestato di zanzare una prospettiva non proprio allettante. Ci addormentiamo presto accompagnati dal concerto di grilli e cicale in riva al fiume.

27 Gennaio 2012

NJANA – LOUDIMA

Il paesaggio cambia e compensa il sacrificio del viaggio lungo la strada che ci sheckera per ore scendendo verso Loudima. La foresta alle spalle siamo ora immersi in una distesa di basse colline che si alzano dalla pianura come grandi seni rotondi generosi e verdissimi e che si susseguono piacevolmente fin quasi a Dolisie, il più importante nodo stradale congolese dove l’illusione di un comodo proseguimento si dissolve poche centinaia di metri oltre lo spartitraffico. Raggiungere Brazzaville non sarà così semplice come il giovane camionista ci aveva fatto credere, del resto ormai sappiamo che nel cuore dell’ Africa nessuno è disposto a rispondere con un sincero – non lo so – e sappiamo anche per esperienza che le capitali politiche sono spesso snobbate dal punto di vista dei collegamenti a favore dei nevralgici centri economici, così Dodoma in Tanzania, Libreville in Gabon ed ora Brazzaville nella Repubblica Popolare del Congo. Ad interrompere la monotonia della strada sulla quale ci muoviamo a zig zag i numerosi cantieri stradali cinesi che evitiamo con ampi slalom. Un segnale di progresso e di crescita che i locali non avrebbero mai potuto inseguire da soli come sottolineano per antitesi i pochi chilometri di asfalto rispetto all’arretratezza dello stile di vita di chi vive sui margini …. è così che per la prima volta e con sincero trasporto apprezziamo il finora bistrattato made in China e che consideriamo la colonizzazione economica cinese meno invasiva di quelle che l’hanno preceduta. La strada favorirà lo sviluppo di quella fascia di popolazione che non avrebbe altrimenti tratto vantaggio dallo sfruttamento delle risorse naturali del paese, una sorta di ridistribuzione a 360° dei vantaggi che sarebbero altrimenti stati solo di pochi. Dopo 240 km percorsi in otto ore, stremati ed ancora tremolanti facciamo il nostro ingresso nel centro abitato di Loudima e ne raggiungiamo l’unico hotel esistente. Un colpo di fortuna che volge in positivo il bilancio della giornata, in fondo abbiamo percorso un bel pezzo di strada in avvicinamento alla capitale, abbiamo steso sotto i pneumatici solo tre pulcini, una capretta si è miracolosamente salvata, abbiamo rotto solo tre dei sei supporti della tenda e per un caso fortunato il tronco che sporgeva troppo dal camion che ci precedeva non è entrato nell’abitacolo sfondando il parabrezza. L’hotel modesto ma decoroso è preceduto da uno spoglio rettangolo di terra battuta, la piazza principale. La porta della nostra camera si apre come diverse altre su uno stretto corridoio grigio come un carcere, le due damigiane nel nostro bagno promettono un piacevole refrigerio, lo spray all’arancio aiuta a dimenticare l’odore pungente di ammoniaca. Recupero la nostra cena con una breve passeggiata lungo la strada già al tramonto sotto gli occhi dei locali che pur guardandomi con gli occhi sgranati accompagnano il loro saluto con un sorriso ad eccezione di nessuno. I bambini giocano nudi e felici tra la polvere e la signora dell’emporio mi segue gentilissima appoggiando le poche scatolette scelte in una bacinella che funge da carrello, è così gentile da proporsi come cuoca sconvolta dall’idea che mangeremo i legumi direttamente dalla latta. Il negozio trabocca di prodotti accumulati dentro a scatoloni o esposti in scansie di legno che nella semioscurità hanno il sapore di continenti da esplorare e contro ogni previsione le scatolette non sono scadute nonostante la polvere che le ricopre. Infine tre tavoli sono stati allestiti di fronte al nostro hotel dove due casse nuove di zecca diffondono musica a tutto volume. Non vi si siederà nessuno ma la colonna sonora del paesino sarà interrotta solo dal blackout delle ventidue.

28 Gennaio 2012

LOUDIMA – MINDOULI

Cento chilometri sono pochi quando separano dalla zona più a rischio del Congo, nel territorio che si sviluppa tra Loutela e Kinkala la guerra civile è stata infatti sedata solo qualche mese fa e la forte ostilità dei locali è rimasta sotto forma di odio sordo nei confronti di chi non fa parte del distretto, praticamente il resto del mondo in particolare statunitensi ed inglesi ai primi posti fra gli extracongolesi, altamente sconsigliato fermarsi per strada e nel caso si rendesse necessario chiedere informazioni abbassare il finestrino di quel poco per farsi sentire. E’ sulla scia di questi timori che quando a Lombolo un paio di militari fanno segno di fermarci l’idea che il nostro viaggio si concluderà qui si fa strada come una certezza, del resto cosa aspettarsi da un sinistro militare incazzato che in una zona così a rischio accompagna la sua richiesta di documenti con due colpi sulla carrozzeria di Gazelle? Vanni scende e porta libretto e passaporti al capo pattuglia in panciolle sull’altro lato della strada che divide in due questo mercato senza bancarelle. La tensione si scioglie quando Vanni torna sorridente con tre militari al seguito muniti di filo di ferro ed a fatica trattengo una risata quando vedo che iniziano zelanti a fissare i supporti danneggiati della tenda. Vanni è un genio! Qualche sigaretta, una bottiglia di whisky in omaggio e quattro piccole ananas acquistate al mercato tra il mormorio dei presenti che abbandonata l’ostilità diffondono l’importante notizia lanciata da un militare al lavoro. Non siamo né statunitensi né inglesi ma solo due innocui italiani. Ripartiamo. Qualche rudimentale ponte scandisce la strada devastata e le rotaie della ferrovia fanno immaginare collegamenti forse più rapidi di questo …. capanne, foresta e Mindouli che conquistiamo nel pomeriggio e che ci offre il confortevole hotel Sir Mour dove alla cortesia del personale si sostituisce presto la scortesia ostile degli altri compresa la cuoca che desidera la mia collaborazione in cucina quando lo deciderà lei…. insomma dovrò preparare la nostra cena in quella che sembra una cucina collettiva, forse l’ultimo colpo di coda del regime comunista tramontato nel relativamente recente 1992.

29 Gennaio 2012

MINDOULI – BRAZZAVILLE

Bastano due numeri per rendere l’idea delle condizioni della strada fra Mindouli e Kinkala, 5 ore e 60 km. Una delle avventure più intense vissute sulle strade africane dal Cameroun al Congo, appassionante ed intensa anche da un punto di vista umano per il cameratismo e la complicità che ha creato nel momento del superamento di ostacoli comuni. Bianchi e neri, camionisti e contrabbandieri di auto, autisti di minibus e passeggeri, bambini curiosi e volenterosi signori che trovandosi nei pressi dei luoghi più critici hanno aiutato a stendere tronchi di legno in guadi fangosi, infine noi e Gazelle che ha superato ruggendo ogni difficoltà grazie al suo motore instancabile, finalmente ad esprimere tutta la potenza accumulata nella sua lunga vita, una leonessa! Un’auto alla volta, rumore di motori spinti al massimo, lamiere colorate, schizzi di fango, suggerimenti urlati, un’auto non ce la fa ed altri rami vengono spinti sotto i suoi pneumatici. Poi i solchi profondi e ondulati che sbilanciano il pesante carico di tir in colonna. Polvere, fango e qualche sigaretta ceduta con un sorriso complice. Uno sballo che ci dà energia, una mattinata fantastica. L’aspetto della patinata Kinkala è ora una stonatura così come l’asfalto e la tediosa esagerata sequenza di posti di blocco di polizia ed esercito fino a Brazzaville, la modesta capitale oggi quasi deserta. Un comodo letto all’Adonis e la pasticceria Le Mandarin.

30 Gennaio 2012

BRAZZAVILLE

L’esercito è ovunque sotto forma di tute mimetiche e baschi viola, Brazzaville è come una grande caserma nella quale circolano centinaia di taxi verdi e scassati, solo al terzo posto si classificano i suoi abitanti a volte scassati come i taxi sui quali salgono. Oltre il grande fiume Congo, ad un paio di chilometri dalla sua riva c’è Kinshasa la cui skyline vediamo alzarsi negli sporadici alti edifici del centro, impossibile fotografarla senza rischiare di essere impallinati. Come tutte le capitali anche Brazzaville è soggetta ad emboutillages che bloccano le strade ed ora anche noi che procediamo sul taxi per un tour che comprende un paio di edifici che non voglio perdermi, il bianco Hotel De Ville superbo esempio di architettura razionalista e la torre della TV che si alza gialla e costolonata la silouette cilindrica flessa al centro come stretta da un corsetto. Infine la stazione dei ferry dove andiamo per raccogliere informazioni in vista del nostro passaggio in RDC a bordo del traghetto per Kinshasa. Non ne raccogliamo nessuna e sbianchiamo pensando a quando fra un paio di giorni dovremo cercare di ottenere due timbri sui nostri passaporti e su quello di Gazelle, dove? e quali sono gli orari dei traghetti?… un mistero che non viene svelato dall’ unico impiegato che vediamo seduto dietro una inferriata contro la quale rimbalziamo in vista di una risposta che ci verrà data domani mattina alle sette e trenta dal suo collega che dovrebbe apparirci dietro la griglia accanto alla sua, al cinquanta per cento mente. Intorno a noi una Lourdes africana popolata da poliomielitici seduti su rudimentali carretti di metallo carichi di sacchi accatastati dietro di loro. Alcuni ragazzi le spingono con fatica arrancando sul piano inclinato che collega al mercato nero in città…. sporchi e infarinati gli invalidi seduti in testa cavalcano il bottino con sorrisi tirati in vista del misero guadagno seppur esente da tasse doganali. Unici a poter sfruttare questo vantaggio e sfruttati per questo in cambio di pochi soldi sfilano producendo lo spettacolo grottesco e inquietante del quale ora siamo spettatori. Dopo aver dribblato a fatica il tentativo di ruberia da parte del tassista recuperiamo alla grande con una cena al Mami Wata, tirato e con vista fiume. Tra pochi giorni saremo sotto le luci che vediamo in lontananza, a Kinshasa, la capitale con una altissima percentuale di abitanti sotto la soglia di povertà e per questo pericolosissima.

31 Gennaio 2012

BRAZZAVILLE – LESIO’ LOUNA GORILLA RESERVE

A questo punto non ci sono alternative, se vogliamo vedere i gorilla dobbiamo osservarli in cattività, appena nati o poliomielitici, coronando così con un facile avvistamento un desiderio nato fin dall’Italia, quando avevamo dato per scontato di poter archiviare nella nostra memoria le immagini di un discreto numero di gorilla, quelli grandi, grossi e incazzati. E’ per questo che rassegnati e curiosi ci avviamo verso la riserva Lesiò Louna che troviamo oltre il villaggio di Mah, al termine della pista che attraversando lievi pendii verdi sfiora il Lago Blu e termina nella selva. Il campo è al centro di una piccola radura, poche casette di legno scuro a palafitta, una grande veranda circolare protetta da zanzariere, farfalle colorate, un gatto grigio e stranamente una antilope stile bamby affettuoso come un animale domestico. Tutto molto piacevole ma il campo è deserto ed all’imbrunire iniziando a temere il peggio recuperiamo le torce, lo scatolame per la cena e sopraffatti dalla noia iniziamo a fantasticare circa un eventuale temutissimo attacco che dobbiamo essere pronti ad affrontare. Immedesimatosi così nel ruolo di macho pronto a tutto Vanni inizia ad allenarsi falciando qualche ramo, dato che i gorilla stanno diventando per noi sempre più una leggenda perché non farne parte dando sfogo almeno alla nostra fantasia?

01 Febbraio 2012

LESIO’ LOUNA GORILLA RESERVE – BRAZZAVILLE

Infine qualcuno è arrivato ed ora siamo gli unici spettatori dello show dei gorilla bebè. Li avevamo immaginati piccoli e con le labbra sporgenti a succhiare le tettarelle dei biberon, ma li vediamo abbastanza grandi da sembrare adulti. Ora stanno giocando scatenati esibendosi in qualche tuffo nel fiume che ci separa da loro, si azzuffano, si arrampicano sugli alberi e battono le mani aperte sul petto per esprimere la loro gioia. I visi enigmatici inquadrano occhioni umani che guardano curiosi e le loro gambe si incrociano l’una dietro l’altra simulando una posizione alla Charly Chaplin, infine la loro spontaneità che fa passare in secondo piano la forzatura di questo che avevamo immaginato come uno spettacolo circense. Riassumendo i quindici minuti che ci sono stati concessi sono volati via in un baleno. …. costosissimi ma illuminanti. Il boss del campo ci ha infatti svelato un particolare che ha dato un diverso significato al gesto che ha reso King Kong tanto temibile. I gorilla infatti battono i pugni sul petto quando sono contenti o quando vogliono dimostrare la loro superiorità nei confronti di un altro maschio, quando attaccano emettono invece una serie di bacetti e poi fanno volare l’avversario contro un albero…. particolare che li rende simili per intenzioni agli umani di sesso maschile. Gratificati rinunciamo volentieri al gorilla poliomielitico che avendo problemi di masticazione viene nutrito in un altro campo, un avvistamento troppo triste per valere le due ore di viaggio da qui.


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17 Rep. Dem. Congo


02 Febbraio 2012

BRAZZAVILLE – KINSHASA

Pierre arriva trafelato in hotel con trenta minuti di ritardo, la fronte imperlata di sudore spende pochi secondi per presentarsi e si precipita subito dopo al porto per raccogliere informazioni sulle formalità da espletare per raggiungere la RDC a bordo del traghetto che arriva a Kinshasa, l’inferno che raggiungeremo tra qualche ora. La corsa contro il tempo inizia già all’una del pomeriggio quando immersi nel traffico del centro cerchiamo di raggiungere nel più breve tempo possibile il piazzale che precede la banchina dove Gazelle si arena risucchiata dalla massa vischiosa di corpi e carretti, l’ultimo traghetto partirà tra meno di un’ora. Lasciato Vanni accanto a Gazelle iniziamo letteralmente a correre per l’acquisto dei biglietti e per i timbri sul carnet de passage entrando in uffici grigi troppo vicini alle toilettes, le sedie già occupate da altri viaggiatori. Quando infine raggiungiamo l’ufficio immigrazione per i timbri sui passaporti Vanni è già lontano, a bordo del piccolo traghetto che si sta allontanando dalla costa, e noi in preda ad un comprensibile panico ci chiediamo come farà a cavarsela senza passaporto e come faremo noi a raggiungerlo, ma il nostro pallore in questo caso ci viene in aiuto perché tutti ormai conoscono il caso dei due bianchi ed appellandoci con il termine “ les italiens “ ci urlano un paio di preziosi suggerimenti. Salgo con Pierre sul taxi trovato come per miracolo all’interno dei cancelli del porto e raggiungiamo un secondo battello in partenza che, colpo di scena, verrà agganciato a quello dove Vanni si sta sbracciando per attirare la nostra attenzione. Chiusi in auto come in un bunker osserviamo il trambusto attorno a noi mentre Vanni teme che la bagnarola non affondi proprio in mezzo al fiume Congo. Come formiche al lavoro i locali vestiti di stracci stipati nel poco spazio disponibile spostano ed accatastano attorno a noi i sacchi che venderanno al mercato nero, ognuno seduto sui suoi per custodirli come tesori, litigano, si offendono contorcendo il viso in smorfie aggressive in una guerra fra poveri che cercano così di sfuggire alla fame a costo di prendere le frustate da parte delle guardie che li aspettano allo sbarco. I militari iniziano ad agitare in aria i loro rudimentali frustini ancora prima che il traghetto sia approdato in banchina, come carnefici in attesa delle loro vittime. Molti passeggeri sono irregolari e di scudisciate ne vengono assestate molte su quei corpi magri e coperti di stracci, così come su alcune donne con i bambini legati sulla schiena. Lo spettacolo è raccapricciante ed è impossibile osservare indifferenti quella che ci appare come una inutile, assurda ed anacronistica violenza, le scudisciate non ostacolano la disperata fermezza di sfuggire alla fame né la necessaria lotta per la sopravvivenza. Poi un ragazzo in manette viene spintonato dietro di me in un angolo dell’angusto ufficio immigrazione dove il giovane impiegato seduto dietro un piccolo tavolo di legno non sembra trovare il momento giusto per timbrare i nostri passaporti, il caldo è soffocante e l’atmosfera non proprio rilassante. Qualche mazzetta distribuita qua e là per liberarci in tempi ragionevoli dalla morsa delle formalità e siamo di nuovo in auto a procedere lentamente verso l’uscita fra le carrozzelle degli invalidi e le file di ciechi che si muovono come serpenti in fila indiana, il braccio teso ad afferrare la spalla di chi precede. Raggiungiamo l’hotel scavalcando cumuli di immondizia, accanto a bambini seduti nei canali di scolo delle fognature, di fronte a misere catapecchie di lamiera e legno, dentro a favelas che trasudano odore di morte. Infine l’hotel Memling e la nostra camera, lussuosa oasi per bianchi, il tranquillizzante e necessario Fort Knox di Kinshasa.

03 Febbraio 2012

KINSHASA

Sebastian vende mappe plastificate della sua città e della sua nazione oltre la porta dell’hotel, oggi però sarà la nostra guardia del corpo ed il necessario dispensatore di consigli per un paio d’ore, un tempo esorbitante rispetto a quel poco che c’è da vedere in città. Il primo importante suggerimento arriva subito dopo aver mosso i primi passi, niente foto si raccomanda, i congolesi non hanno un buon rapporto con le macchine fotografiche altrui e le poche concesse sono i classici banali souvenir con la città sullo sfondo, quelle che solo lui potrà scattarci in qualità di guida locale. Nonostante questo il suo disagio nell’afferrare lo strumento proibito è evidente quanto la pochezza di Kinshasa, città povera e malandata che fa sfoggio della sua deprimente arteria centrale bordata di edifici per nulla interessanti e che termina verso il porto con un orribile monumento che fotografiamo in cambio di una mancia al poliziotto di guardia. L’unica cosa a colpirci oggi è il sole che ci ha resi due tizzoni ardenti, e la squisitezza di un frutto mai assaggiato prima, una melagrana color melanzana contenente una succosa cedevole polpa bianca divisa in spicchi come l’aglio e dal sapore strepitoso composto da un mélange di mandarino e litchi, il suo nome è MANGUSTAN…. da provare! Sebastian arriva puntuale all’appuntamento delle sei in compagnia di due muscolosi amici disposti a picchiare per garantire la mia incolumità, come un padre apprensivo Vanni ha infatti posto condizioni precise alla mia scorribanda nella city ed io ho una gran voglia di ascoltare musica dal vivo in un luogo che non sia un locale per bianchi, per strada andrà benissimo. Il ragazzo con la camicia a fiori è seduto alla guida dell’auto che mi aspetta semi nascosta dietro l’angolo dell’hotel, Sebastian è di fianco a me, visibilmente nervoso osserva la strada come se temesse un’imboscata. Quando raggiungiamo il quartiere è quasi notte e le due guardie del corpo ci aspettano in fondo alla sterrata bordata di rifiuti, siamo arrivati. Il piccolissimo cortile è oltre uno stretto corridoio a cielo aperto, arredato con alcune sedie di plastica, animato da quattro galline volanti che starnazzano in complicate evoluzioni ed infine la band composta da tre chitarre acustiche, tre vocalist ed un ragazzo alle percussioni. Ci stavano aspettando. Pochi metri quadrati e molta atmosfera, melodie cubane con testi in lingua locale, la voce calda ed avvolgente di una giovane cantante, un’ora di concerto e di puro piacere che la situazione e la qualità della musica hanno resa indimenticabile. E che dire dell’originalità delle percussioni povere ma geniali dove un mazzo di saggina, un cartone a sbalzo oltre il bordo di un tavolino, un bongo e due bacchette hanno potuto generare un tale miracolo? Intanto le melodie si fondono con i rumori della strada ed a quello dei polli volanti e un sms in arrivo illumina la tasca della cantante, avrei voluto filmarli e comprare un loro inesistente cd. Non è difficile immaginare che Sebastian debba aver raccontato una bugia per riuscire a farmi entrare come unica spettatrice nell’esclusivo cortiletto musicale e dalle domande che mi vengono rivolte a fine concerto direi che questa sera sono stata una procacciatrice italiana di nuovi talenti. Un ragazzo gentile al quale devo molto questo Sebastian. Il console e Vanni stanno conversando nel bar dell’hotel, due Americani, un Campari e piacevoli chiacchiere, poi tutti a cena al “Limoncello”, un locale alla moda sulle cui tavole viene servita la pasta fresca dell’anziana signora Maria che non sa fare le tagliatelle, ma il locale è piacevole ed il console simpatico e scatenato. E’ per questo che finiamo all’ “Ibiza Bar”, una disco-jazz con musica live rifugio di pallidi occidentali, di immancabili prostitute di colore e questa sera di un ragazzo nero con occhiali da sole ed un fisico stratosferico, la cui testa completamente avvolta da una sciarpa rossa fa di questo un locale di tendenza. Ma Kinshasa ha altro da offrire a chi vi si avventura di notte e così dopo essere usciti indenni dalla eccessiva vicinanza di una banda di storpi che chiedendo denaro vuotano quando possono le tasche dei clienti del locale, siamo assaliti ad un incrocio da una banda di giovani teppisti, lungo le strade deserte della città illuminata dalla luce debole di qualche lampione, le loro braccia cercano di infilarsi oltre i finestrini. Una accelerata, qualche parolaccia e siamo salvi senza dover usare la pistola ad aria compressa del nostro accompagnatore, né il suo manganello telescopico, strumenti necessari per uscire vincitori da possibili attacchi di strada. Mentre assisto leggermente scossa ripenso a quel cortiletto ed alla band che ho avuto il privilegio di ascoltare in questa serata speciale qui nella inquietante Kinshasa.

04 Febbraio 2012

KINSHASA – MATADI

Il sabato è ovunque nel mondo giorno di mercato e noi ne attraversiamo tre uscendo dalla capitale la cui periferia sfuma lontana. Le bancarelle invadono la carreggiata, mandrie di persone vi camminano accanto ed i numerosi minibus fanno il resto bloccandoci per interminabili minuti nel ritmo lento di carico e scarico di vestiti colorati. Preoccupati per i racconti e la disavventura di ieri sera non è stato facile ostentare indifferenza di fronte all’ attacco con pugni sulla carrozzeria di Gazelle e parole urlate da parte di un gruppo di ragazzi, non prestar loro attenzione non ha diminuito la nostra tensione quando bloccati in tutte le direzioni ci siamo sentiti in trappola. Usciti indenni da tre incubi in sequenza troviamo sollievo nel paesaggio e nella strada perfetta mossa dalle colline in torsioni paraboliche, là dove oasi di palme sui prati verdi chiudono definitivamente la lunga parentesi di foresta a perdita d’occhio creando prospettive aperte su basse colline tondeggianti. Arriviamo a Matadi nel tardo pomeriggio dopo quattro ore di viaggio e molti imbottigliamenti, una città di case marroni fissate sulle colline dello stesso colore, scalette scolpite nella terra e tetti di alluminio, poi l’hotel pacchiano ma di lusso e comunque al di sopra delle nostre aspettative, un comodo lettone con due piccoli cuscini supplementari di velluto rosso, grandi tende a fiori colorati ed il bagno rivestito di marmo chiaro. La porta non si chiude e la receptionist non sa usare l’apparecchio Visa né caricare la scheda di apertura della porta, ma otteniamo la preziosa informazione che cercavamo. Qui dove nessuno sa nulla, dopo aver chiesto a diverse persone è il cameriere del ristorante a convincerci nonostante la resistenza di Vanni, di aver sbagliato strada. Attraversare la frontiera con l’Angola qui a Matadi – Nokui significherebbe impantanarci in una sterrata malconcia che solo i locali percorrono perché costretti, il posto giusto invece è la cittadina di Songolo che collega alla frontiera di Kufu ed all’Angola, l’ultima tappa di di questo impegnativo viaggio in Africa centrale. Eppure ci addormentiamo non completamente convinti della strada che ci hanno suggerito di fare, come esserlo dopo tante fregature raccolte?


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18 Angola


05 Febbraio 2012

MATADI – N’ZETO

Il distributore è aperto solo in teoria, in realtà l’unico benzinaio sta chiacchierando con un paio di camionisti e la fila di auto in attesa alle pompe con il tappo aperto un inutile invito a fare in fretta. E’ così che non ancora rassegnati ai non tempi africani per i quali offrire un servizio non significa necessariamente farlo in tempi ragionevoli andiamo oltre, verso Songolo ed alle taniche di gasolio in vendita lungo la strada. Novanta chilometri e viriamo a Sud fino a raggiungere la frontiera della RDC dove le procedure sono veloci ed i timbri assestati in pochi minuti, qualche sorriso, un arrivederci e siamo alla frontiera angolana. Scrivanie intonse, computer e scanner nuovi e funzionanti, divise impeccabili ed il portoghese, che essendo l’unica lingua parlata dai gelidi doganieri ci crea fin dall’inizio qualche problema, compensato in parte dal candore delle toilettes. In pochi chilometri abbiamo raggiunto un mondo apparentemente diverso e noi siamo tra i pochi occidentali ad entrarvi, attraverso questa sbarra che di turisti ne ha visti pochi. La classe dirigente angolana infatti non accetta di buongrado l’ingresso di stranieri nel loro paese se non uomini d’affari con i quali fare speculazioni economiche ed è per questo che ottenere il visto turistico è estremamente difficile a meno che non ci si rivolga alla nostra ambasciata. Liberi dalle briglie della frontiera raggiungiamo sull’ asfalto impeccabile M’banza Congo la cui importanza è sottolineata dalla larga strada asfaltata che divide in due parti le casette scrostate ed i disordinati mercatini lungo le vie in leggera pendenza, sporche e di terra battuta. E’ subito chiaro che la perfezione degli uffici della dogana era solo fumo negli occhi, che l’Africa è anche qui l’Africa ed al distributore la fila non c’è forse solo perché a secco di carburante, a poco vale per gli abitanti di M’banza Congo l’appartenenza ad una nazione che trabocca di petrolio. Dopo aver superato il corteo di un funerale dove tutti i presenti come impazziti hanno iniziato ad urlare – bianchi, bianchi – ed hanno tentato di bloccare la strada con la bara, abbiamo ora il piacere di abbandonarci al rilassante paesaggio mosso in morbide alture fino alla costa, puntando il muso di Gazelle su N’Zeto che abbiamo immaginato come una ridente località balneare sull’oceano Atlantico. Intanto le palme sfumano sostituite da un crescendo di grossi baobab stranamente frondosi mentre un paio di carri armati arrugginiti residui della relativamente recente guerra civile giacciono abbandonati come relitti fra l’erba alta. Ci inseriamo nel paesino sfiorando gli intonaci scrostati delle poche case che si affacciano sul corso principale sterrato fino alla spiaggia dove solo poche barche di pescatori sono arenate sulla sabbia ed un baretto è stato preso d’assalto dai giovani locali ai quali piace bere birra. Capiamo subito che non è il caso di scendere dall’auto, le espressioni dei loro visi nel vederci non sono rassicuranti e le recenti esperienze ci hanno insegnato che l’ostilità diffusa in questi paesi potrebbe degenerare in questo caso alimentata dai fumi dell’alcol, forti delle recenti esperienze sappiamo di dover ridurre al minimo i rischi. L’albergo Vito ha solo un paio di camere ma pulite e dotate di tutto compreso il materasso-graticola, l’acqua corrente solo su richiesta ed un giovane gestore che specula sul tasso di cambio del dollaro e cerca di non dare il resto. Non molto peggio dell’anziano signore portoghese che per l’occasione fa lievitare il prezzo del nostro piatto di pesce al forno con patate da 12 a 20 $ a testa, ma che si riscatta con i biscotti fourré al cioccolato per i quali siamo disposti a spendere qualsiasi cifra. Dopo il tramonto finiamo col non sentirci al sicuro nemmeno qui in albergo, alcuni ragazzi arrivati per bere birra spargono occhiate non proprio amichevoli e mi lanciano volgari bacetti nonostante la presenza di Vanni, ci detestano e cercano di dimostrarlo per fortuna senza spargimento di sangue, infine li sentiamo urlare ubriachi fino a notte fonda di fronte al bar sulla strada, troppo vicini alla fragile porta della nostra camera. Un incubo!

13 Gennaio 2008

N’ZETO – N’ZETO

Come resistere alla tentazione di abbandonare la devastata nazionale che arriva a Luanda costeggiando il mare? Non resistiamo e seguendo il consiglio di un camionista fermato per strada dopo pochi chilometri di onde in terra battuta, lasciamo questo inferno nella prospettiva del comodo anche se più lungo viaggio che partendo da M’Banza Congo prosegue per Uigé e Caxito raggiungendo infine la capitale. Carta stradale alla mano un camionista garantisce con tono deciso che il tratto di strada fra M’Banza Congo e Uigé è asfaltata, si tratta solo di tornare al punto di partenza di ieri e considerare N’Zeto un fuori programma. Ho sempre snobbato i proverbi, ma in questo caso il “mai lasciare la strada vecchia per la nuova” non poteva essere più azzeccato e l’averlo preso in considerazione ci avrebbe risparmiato 500 km inutilmente percorsi. La strada che avrebbe dovuto essere asfaltata non è infatti più larga di tre metri, in terra battuta con solchi profondi che spaccano la pista in due o tre strette strisce di terra sulle quali appoggiare i pneumatici, guadi facilitati da tronchi appoggiati che si muovono sotto i pneumatici, pochissimi villaggi segnati sulla mappa, scarsa se non remota possibilità di trovare carburante ed il rischio di trovarci impantanati e con problemi all’auto in balia di angolani alla fame che ci lascerebbero in mutande dentro un grande pentolone con carote, cipolla e sedano. Impensabile andare oltre i cinque chilometri percorsi in un’ora. Quindi torniamo a N’zeto, dove senza che avessimo temuto il contrario la camera n° 2 è ancora disponibile.

07 Febbraio 2012

N’ZETO – LUANDA

Rassegnati abbiamo percorso i 187 km della strada colabrodo in sette ore ed abbiamo procurato un lieve danno a Gazelle. Al bilancio non positivo va sommata una mia piccola crisi isterica ed un ingresso in città lungo e faticoso attraverso le strade del porto intasate di auto, minibus, moto e camion. Non c’è nessun taxi in circolazione che possa condurci in hotel ed un vigile intransigente ci fa perdere tempo avendo beccato Vanni senza cintura di sicurezza, forse l’unica volta nella sua vita. Alla estrema povertà della lontana periferia dove favelas sono cresciute su montagne di rifiuti seguono i tanti cantieri di una city in crescita verticale. Si distinguono tra i giganti di metallo e vetro alcuni bassi edifici coloniali e vecchi condomini tappezzati di parabole e bucati stesi ad asciugare. Anche a Luanda la spazzatura non manca anche se discretamente ammucchiata accanto ai marciapiedi, ed è evidente che la capitale più costosa del pianeta si sta ancora organizzando. Nonostante il mare rappresenti il fulcro della sua forza economica lo vediamo lontano, quasi dimenticato a ricoprire un ruolo marginale nella città che pur vi si affaccia e lo avvolge con una profonda stretta lingua di terra arricciata verso l’orizzonte. Lo si vede solo dalle finestre più alte dei grattacieli resi ancora più verticali dal terreno in pendenza. Il sesto piano dell’hotel Skyna ce ne regala una striscia tagliata a destra da un recente edificio ben disegnato. Cos’altro aggiungere su questa città incasinata da scoprire passeggiando fra lattine vuote e sacchetti di plastica svolazzanti, persone indaffarate ed ingombranti SUV che a fatica si fanno largo nelle strette strade del centro. Per strada non scatto foto, dopo i rischi corsi a Libreville, Brazzaville e Kinshasa non vorrei finire impallinata proprio pochi giorni prima del rientro in Italia, sto invecchiando!


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01 Croazia


12 Gennaio 2008

FORLI’ – POLA

Ancora una piccola riparazione ad Asia che proprio ieri sera aveva perso un pezzo….nulla di grave, ma che la pignoleria di Vanni non ha potuto ignorare. Insomma siamo pronti per partire solo verso le 11, pochi minuti dopo aver chiuso la valigia contenente un disordinato miscuglio di cose necessarie per il viaggio…..cartine e guide, magliette e tabacco, qualche spazzolino da denti. I nostri due trolley invece ci aspettano a Bologna. E’ un vero caos avere due guardaroba a 75 km di distanza l’uno dall’altro! Ripartiamo da Bologna poco prima dell’una e strada facendo si innesca il consueto ripassino che scaturisce dal dubbio…..abbiamo preso il carica batterie del telefono satellitare? E quello dei cellulari?…..e le carte stradali….. – ti sei ricordato di staccare quella dell’Asia centrale dallo specchio della camera? No! Abbiamo dimenticato una delle carte stradali fondamentali ….l’unica che avevamo degli stati che visiteremo oltre il Mar Caspio! Inutile pensare di poter viaggiare con il solo ausilio del navigatore. Le mappe contenute sul Garmin sono così sommarie da sembrare uscite dalla censura del più inespugnabile stato comunista. Siamo così felici di partire che dopo poco non ci pensiamo più ed in un baleno siamo a Trieste, dalla quale vediamo l’ampio specchio di mare prospiciente, poi siamo immediatamente in Slovenia, dove la strada si torce sul verde terreno collinare allontanandosi leggermente dalla costa. Il richiamo del mare è forte e scaturisce nella decisione dell’ultimo minuto di raggiungere Sarajevo percorrendo la litoranea anziché l’autostrada che passa dall’interno. Pula anziché Zagabria….l’opzione ci piace e così lasciamo l’autostrada per percorrere la comoda statale che corre ad una decina di chilometri dal litorale, l’acqua trasparente del quale rimane per il momento un ricordo lontano. Il controllo dei passaporti alla frontiera della Croazia ci coglie di sorpresa ma certo non impreparati….sembra un controsenso che a poche ore d’auto da casa non si debba essere ancora in Europa…quando paesi così lontani sia geograficamente che culturalmente ne siano entrati a far parte in tempi più o meno recenti. Mentre osservo la stretta fascia croata sulla mappa dell’Europa l’attenzione va ai vicini Parenzo e Rovigno che furono i primi obiettivi raggiunti nelle mie gite di adolescente in barca a vela….e Dugi Otok, l’isola lunga e spoglia che non si riusciva mai a traguardare. Poi l’attenzione cade su Porec, un paesino sulla costa famoso per la sua basilica bizantina Eufrasiana del VI secolo. Siccome il tema di questo viaggio è proprio Bisanzio e la sua stupenda architettura sacra, perché non iniziare con questo gioiello patrimonio dell’umanità? La deviazione e la visita ci impegnano per una piacevole oretta. La strada che conduce al mare è circondata da vigneti e campi coltivati che assecondano il terreno mosso in larghi poggi che arrivano al mare. Il paesino di Porec è tirato a lucido…i fondi Unesco sembrano essere stati ben spesi nel rendere piacevole e curato il piccolo centro storico. La tipica pavimentazione di pietra lucidata dall’uso delle stradine che percorriamo per raggiungere la basilica riflette la luce di questo sole intenso. Un paio di campanili emergono dal centro abitato fatto di case basse coperte con tetti di coppi che si protendono dentro il mare blu della baia come galleggiando su una piccola penisola. Una piacevole brezza ci accompagna nella breve passeggiata lungo il corso principale largo pochi metri ed illuminato dal riflesso del lastricato lucente. Gli edifici vi si affacciano leggeri, in cromatismi chiari impreziositi con qualche fregio in pietra. Sul fondo di un breve vicolo in ombra che si apre sulla nostra destra, un portale di pietra sormontato da una lunetta mosaicata in oro segna l’accesso alla preziosa basilica. Entriamo dapprima nel piccolo incantevole chiostro, quindi nella basilica che si apre su uno dei lati porticati. Alla sobrietà esterna tipica dell’architettura bizantina, si contrappone la ricchezza dei mosaici dell’abside dove un Cristo assiso campeggia su un prezioso fondo oro. Pulvini a piramide tronca rovescia segnano la base delle arcate che si inseguono sui due lati della navata principale…..ripenso a quelli della magnifica San Apollinare in Classe di Ravenna e me ne sento orgogliosa….la bellezza delle chiese bizantine della mia città natale rimane insuperata. Torniamo al parcheggio passeggiando lungo il percorso pedonale che costeggia la baia blu intenso…..alla nostra destra gli alti muri di pietra che delimitano l’area di pertinenza della chiesa. Camminiamo immersi nell’aria piacevolmente tiepida, la brezza ci regala un equilibrio termico perfetto mentre osserviamo la vegetazione acquatica immersa nell’acqua trasparente che stimola ad un bel tuffo. L’immobilità della scena è interrotta dall’avvicinarsi di un gommoncino mandato a motore……siamo felici. Ancora vigne e campi coltivati nel paesaggio mosso dell’Istria sfilano ai bordi della strada verso Pola che raggiungiamo alle 19. Il mio ricordo di Pola risale ai tempi di Tito, lontano più di 30 anni. Forse proprio per via di quel ricordo non positivo decidiamo di baipassare la città ed il suo famoso anfiteatro per scendere direttamente alla penisola Verudela stretta tra un ampio porticciolo e la baia della città che vediamo lontana dalla finestra vista mare dell’Hotel Brioni….un piccolo capolavoro di architettura anni ’70 a due passi dalla spiaggia. Il sole scende fino a scomparire all’orizzonte, sul mare ora nero. Noi siamo stremati….strano, in fondo abbiamo fatto poco più di 500 km!


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02 Bosnia


09 Giugno 2009

POLA – SARAJEVO

Ci svegliamo nella camera piena di luce di questa mattinata di sole…..gli schiamazzi lontani di bambini che giocano sulla spiaggia sassosa. Sapore di mare. Riposati lasciamo il mare della penisola e Pula per addentrarci nell’entroterra montuoso dell’Istria e poi ancora oltre verso Zagabria e poi chissà….. per il momento non sappiamo dove arriveremo questa sera. Abbiamo abbandonato il progetto di raggiungere Sarajevo attraverso la costa con una sosta nella bella Trogjr ….questo è un altro viaggio e raggiungere via terra gli amati paesini costieri non avrebbe lo stesso sapore di quando li conquistammo in barca a vela. Quindi ci spingiamo all’interno verso Zagabria percorrendo la comoda autostrada che si inoltra nelle montagne ricoperte di abeti verdissimi che vediamo tra una galleria e l’altra. Ancora uno scorcio di mare in corrispondenza di Fiume….lo osserviamo come se stessimo lasciando qualcosa di prezioso che chissà quando rivedremo…..poi in un paio d’ore siamo a Zagabria che sfioriamo per proseguire lungo l’autostrada verso Sud.
Il salto di scala tra la mappa dell’Europa e quella dettagliatissima della Bosnia al centro della quale si trova il nostro obiettivo ci fa capire che non sarà così immediato il suo raggiungimento. Sarajevo non è collegata da autostrade e sono 300 i chilometri di strada di montagna che dovremo percorrere dopo il casello d’uscita. Quando chiediamo all’impiegato che ci porge il resto ci garantisce che in tre ore ci si arriva….speriamo che abbia ragione perché sono già le tre del pomeriggio e l’aria condizionata di Asia non ci ha tenuti poi così al fresco….deve essere una ventola che non funziona. Nonostante i tre mesi di restauri Asia è la più scassata delle tre Toyota che abbiamo….o meglio delle due rimaste. Alla frontiera bosniaca i controlli dei documenti si fanno rigorosi….libretto, carta verde ed un timbro sul passaporto. A differenza dei croati, gentili e rilassati questi bosniaci hanno un’aria vagamente minacciosa. La statale che abbiamo imboccato verso Banja Luca, trafficata com’è, ci impone la velocità massima di 60 km/h….si fa sempre più plausibile l’ipotesi di fermarci proprio qui per la notte…..tanto per non trascorrere una intera giornata in viaggio e per poter ammirare il castello di questa nuova capitale della repubblica Serba in territorio bosniaco. Ma poi dopo averla raggiunta ci rendiamo conto che proprio non ci ispira per una sosta….anzi la troviamo abbastanza squallida e del castello nemmeno l’ombra. Rimangono più di quattro ore di luce, così decidiamo di puntare la prua di Asia su Sarajevo. Da Banja Luca la strada si fa tortuosa anche se meno trafficata……costeggiamo il fiume Vrbas dalle acque blu nel pittoresco fondovalle che si snoda tra le montagne. Il paesaggio è magnifico e questa giornata di cielo assolutamente azzurro ci regala fantastici scorci anche su ragazzi in costume da bagno sulle rive del fiume. Qua e la in prossimità dei piccoli centri abitati, spunta dal verde del bosco qualche minareto che sottile come un missile, bianco e con la punta nera, sembra dover scomparire da un momento all’altro inghiottito dal cielo. Questo fondovalle è incantevole ! Le case dei paesini che attraversiamo hanno tetti ripidi in lamiera, piccole finestre e finiture di legno….è un pò come essere sulle nostre Alpi. Il primo centro abitato davvero bello e nel quale mi sarei fermata volentieri dopo quasi otto ore di viaggio, è Jaice. Un paese che occupa una piccola vallata, dominato da un’antica fortezza sorta su una rupe al centro dell’abitato….i tetti delle case qui rasentano la verticalità. Davvero bello Jaice…penso mentre lo superiamo senza rallentare…..come se si trattasse di un miraggio piuttosto che di un luogo vero e proprio col quale poter interagire. Inutile dire che mai una proposta del genere potrebbe arrivare da Vanni che insegue l’obiettivo che si è posto, ad ogni costo. La decisione spetta a me, ma sono così spappolata da non aver nemmeno la forza di impormi con una decisione che lo farebbe senz’altro contrariare. Arriviamo a Sarajevo alle 20 dopo dieci ore di viaggio ininterrotto. E’ l’imbrunire e dobbiamo cercare di orientarci per raggiungere l’hotel Hecco nel quale abbiamo prenotato una camera telefonando un paio d’ore fa. I cartelli stradali scritti in caratteri cirillici non ci aiutano ad orientarci, ma abbiamo pur sempre il fiume come importante riferimento in città e la spesso gettonata possibilità di seguire comodamente un taxi che ci conduca a destinazione. Sarajevo ci accoglie con file di grattacieli di recente costruzione che sembrano voler superare in altezza le montagne che circondano la stretta vallata nella quale la città è adagiata. Belli ma proprio non ce li aspettavamo ! Procedendo paralleli al fiume vediamo sulla nostra sinistra l’Holiday Inn, l’unico hotel sopravvissuto al recente conflitto e che ospitava i reporter delle maggiori testate giornalistiche del mondo. Poco oltre, sul lato opposto dell’ampia strada che conduce al centro, un grande edificio mostra chiare le cicatrici dei bombardamenti…. circondato da una selva di edifici nuovissimi dalle volumetrie accattivanti costruiti senza badare a spese, con i fondi degli aiuti internazionali…..fa piacere constatare che quegli aiuti, compreso il nostro, abbiano scaturito un così buon risultato. Gli edifici monumentali in stile austro-ungarico, sono sopravvissuti alla devastazione e danno alla città una chiara connotazione di capitale europea. Sarajevo ci piace fin dal primo colpo d’occhio. Il nostro hotel Hecco ( Via Medresa 1 tel. 0038.733.273730 ) è nuovissimo. Lo raggiungiamo dopo un solo errore alle 20.30, poco prima del buio totale. E’ poco a nord del quartiere più vivace della città storica, il Barscarsija, ricco di vie pedonali che esploreremo domani. Per il momento ci godiamo la meritata doccia nel bagno troppo piccolo della camera. Distrutti ma affamati, mentre ripercorriamo scendendo alla reception gli ambienti vagamente De Stijl degli spazi comuni con geometrismi esasperati colorati a tinte forti come se si trattasse di un quadro di Mondrian, ci chiediamo in quale lingua sia meglio intervistare la receptionist. Ci consiglia un ristorante vicino all’hotel….il Kibe, che si trova in via Urbanjusa 164, (tel. 033.441936 ) la strada dietro l’hotel, ci dice, e poi salite. Altro che vicino ! Percorriamo a piedi almeno un chilometro in salita costeggiando per un tratto un paio di cimiteri di guerra sui due lati della stradina, ma poi ne siamo soddisfatti….ed in fondo un pò di movimento ci voleva ! Il Kibe serve piatti della cucina tradizionale bosniaca e non è frequentato da turisti, almeno non questa sera. E’ un edificio di legno articolato in diversi volumi che si affacciano con ampie vetrate sulla città le cui luci vediamo laggiù, lontane. L’atmosfera intima ed avvolgente ha un sapore vagamente retrò per via della collezione di vecchie radio poste in bella mostra sulle mensole di legno ed un pò ovunque. Che bel posticino….il nostro tavolo è accostato alla vetrata dalla quale ammiriamo Sarajevo illuminata dalla luna piena…..arrivano un paio di suonatori a rallegrare la tavolata accanto a noi. Una sorta di Mariachi in versione bosniaca che suonano e cantano, accompagnati anche dai coretti dei clienti del ristorante, brani popolari di musica locale. E’ come essere immersi nel set cinematografico di un film del famoso regista bosniaco Kusturica. Assaggiamo i piatti locali con una certa soddisfazione, accompagnandoli con ottimo vino bianco e spendiamo il 50% di quanto avremmo speso da noi. Poi scendiamo a piedi la ripida discesa verso l’hotel, attenti a metterci al sicuro ogni volta che sentiamo arrivare un’auto….guidano come pazzi! Che bella serata.

10 Giugno 2009

SARAJEVO

Il letto comodissimo ci fa dormire 10 ore….poi con calma affrontiamo la visita del quartiere più vecchio della città, poche centinaia di metri a valle dell’hotel. Le strade pedonali strette e dai profili irregolari sono affollate di passanti, di botteghe che vendono prodotti artigianali, gioiellerie ed una miriade di bar con tavolini in esterno nei quali non sarebbe semplice trovare un posto libero dove sedersi. Vi si respira un’atmosfera vivace ma rilassante, tipica di questa città che ha maturato un credito di spensieratezza e di benessere. Colorati e sorridenti, gli abitanti di Sarajevo sembrano essere tutti qui a passeggio sulla Ferhadija, la strada pedonale sulla quale si affacciano le boutique così come le chiese ortodosse le moschee e le sinagoghe. Tutti insieme in una pace ritrovata e vissuta intensamente , con serenità e tanta voglia di vivere. Minareti e campanili spuntano qua e la tra edifici nuovi ed altri in stile neoclassico risparmiati dai bombardamenti. Il fiume Miljacka non ha una grande portanza….ed è poco profondo nel suo tratto urbano, ma le sue acque ed i ponti danno alla città una connotazione particolare accentuata dal fatto che vi si affacciano gli edifici più prestigiosi come il Teatro nazionale, l’enorme edificio delle poste e l’accademia di belle arti. Non potevamo mancare alla visita del Ponte Latino. Non solo perché è il più antico ma anche perché nel 1914 fu teatro dell’assassinio dell’arciduca austriaco Francesco Ferdinando…..evento che segnò tragicamente la storia dell’Europa. Alla Galleria d’arte vediamo una bella mostra fotografica di immagini scattate nel mondo da una serie di bravi fotoreporter ed una disordinata esposizione di quadri di ogni epoca in cui il colore rosa sembra essere l’unico filo conduttore. Non poteva mancare una sosta di relax in un baretto ombreggiato e poi un riposino in hotel a mangiare ciliegie, leggere e scrivere. All’improvviso vedo Vanni preoccupato….la guida che sta leggendo sconsiglia di recarsi in Kosovo per via delle tensioni civili e dei terreni ancora minati….ma sono proprio là le prime due chiese bizantine da vedere. Andremo comunque….in fondo anche il Polisario era minato ma una brava guida caricata a bordo sa sempre dove farti passare. Siamo ancora in camera quando i muezzin della città si scatenano in una cacofonia di melodie tutte diverse che emesse simultaneamente sembrano un coro di voci stonate. Poco dopo usciamo per una passeggiata dirigendoci verso la Biblioteca Nazionale ancora in restauro, che si impone enorme sul lungofiume. In stile arabeggiante appena accennato nei decori sopravvissuti alle esplosioni. Sull’altro lato del ponte pedonale che attraversiamo, c’è un ristorantino con i tavoli che si affacciano sul fiume protetti da una tettoia….è l’Inat Kuka, letteralmente la “casa della ripicca”, nel quale ci accomodiamo a bere una birra mentre ascoltiamo il brusio dell’acqua che scorre. Da questa prospettiva osserviamo la città protesa verso le colline verdi di vegetazione, alla luce calda del sole calante. L’Inat Kuka è un posticino davvero carino e rilassante dove si assaggiano le specialità locali alle quali non ci sottraiamo. La misteriosa zuppa di Bey è squisita così come le Sarma, polpette di carne tritata e riso avvolte in foglie di verza….che bontà ! Ancora una passeggiata nelle strade ancora affollate del centro e rientriamo stanchi.


Percorso della tappa

Fotografie
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Asia

28 Palau Moyo

Asia

03 Serbia


11 Giugno 2009

SARAJEVO – KRALJEVO

Lasciamo Sarajevo con opinioni piuttosto discordanti…..Vanni si aspettava di più, soprattutto da un punto di vista squisitamente estetico. In fondo è stata la capitale di una colonia dell’impero austro-ungarico le cui tracce nel tessuto urbano risultano piuttosto rarefatte. Io invece che non mi aspettavo nulla sono rimasta positivamente colpita dal clima rilassato e dai sorrisi della gente che appena quindici anni fa usciva da una guerra feroce e da un assedio durato tre anni. Partiamo diretti al confine serbo che si materializza nella cittadina di Visegrad a circa 120 km da Sarajevo….poi secondo i nostri piani proseguiremo attraversando Kraljevo e Krusevac dove vedremo alcune belle chiese bizantine e ci fermeremo per la notte a Nis, sulla strada verso la Macedonia alla quale dedicheremo i prossimi giorni. La strada serpeggiante verso il confine ci regala scorci meravigliosi con rocce a picco sul fiume Praca e laghi dall’acqua così azzurra da farci sembrare piuttosto all’Agua Azul del Chapas. Circondati dai giganti ricoperti di vegetazione verdissima, che svettano alti sopra di noi, ne osserviamo le curve morbide che si susseguono a perdita d’occhio. Molte le gallerie, buie e senza catarifrangenti a suggerire la direzione da seguire, che proprio per la loro profonda oscurità mi fanno venire una certa claustrofobia….mentre Vanni sembra seduto sul trono quando lo guardo con la coda dell’occhio, accanto a me …..anzi oggi è in gran forma, di nuovo al volante di Asia. La bellezza del paesaggio va scemando oltre il confine serbo, dove le colline si fanno più morbide fin quasi a scomparire all’orizzonte e dove ad un maggiore sviluppo è seguito anche un certo degrado ambientale. Anche qui non mancano le signore in gonna lunga e fazzoletto in testa chine sulle loro zappe intente a curare i campi, ma i paesi che incontriamo sono sempre più anonimi e non offrono nulla di piacevole alla vista. Aumentano invece le aree artigianali ed industriali in un susseguirsi di anonimi capannoni. I tesori non mancano, sembrano piuttosto ben nascosti….lungo la strada vediamo cartelloni che segnalano gli edifici storici della zona con tanto di immagini esplicative ed i chilometri che si devono percorrere per raggiungerli. Fieri del loro patrimonio storico, i serbi giustamente lo rendono accessibile. Dopo quasi cinque ore di marcia con poche soste ci concediamo la visita di un paio di monasteri che raggiungiamo con una breve deviazione di 8 km in verticale sulla collina. Il primo che raggiungiamo attraverso la stretta stradina asfaltata è il Monastero di Sretenje dove un paio di monaci dalla lunga barba e vestiti di un saio nero stanno lavorando alla costruzione di un fienile fuori dalle mura che racchiudono il piccolo monastero e la chiesetta. Accompagnata dall’indifferenza totale dei monaci, mi dirigo a passo spedito verso il portone di legno che costituisce l’accesso al complesso. Giro la maniglia ed entro nel giardino curato che circonda la chiesa e sul quale si affacciano gli edifici colorati e nei diversi stili che ospitano i monaci e le suore….tutti rigorosamente cristiani ortodossi. La chiesetta è piccola e dall’esterno si intuisce che abbia una sola navata senza transetto. Una torre quadrata si erge in corrispondenza dell’ingresso mentre sul lato opposto il volume scatolare termina con un abside poligonale. E’ tutta rigorosamente intonacata e dipinta di bianco, cosicché spicca sugli altri edifici colorati di giallo o in pietra a vista e sul prato con aiuole fiorite. Una suora esce da una porta e mi si avvicina…..parla solo la sua incomprensibile lingua madre, è giovane ed ha l’aria accomodante. Le indico a gesti che vorrei entrare all’interno della chiesa…..mi fa cenno di aspettare poi esce dalla chiesetta porgendomi un pareo arricciato che devo indossare sopra i pantaloni. Il tesoro che mi si spalanca entrando è costituito da una serie di affreschi antichi che ricoprono interamente le pareti dei due ambienti che costituiscono l’interno separati da un’arcata. Gli affreschi hanno colori cupi e ritraggono gli apostoli, il cristo ed altre figure legate al culto….ricoprono ogni cm quadrato di intonaco, compresi gli intradossi degli archi e le cupole che articolano la volumetria interna. Dopo un istante mi raggiunge Vanni che, come me, rimane incantato dalla bellezza delle immagini dipinte e dall’atmosfera magica che permea questo interno. Inutile ogni tentativo di chiedere delucidazioni alla suora circa l’epoca di realizzazione dei decori interni…proprio non c’è modo di capirsi ! Acquistiamo con due euro un paio di candele che accendiamo sotto la piccola tettoia antistante l’ingresso. Proseguiamo il nostro viaggio percorrendo a ritroso l’ultimo tratto della stradina e deviando poi per raggiungere il secondo antico monumento della zona…..il monastero di Trojica, anch’esso protetto da una piccola cinta muraria in pietra che accoglie al suo interno gli edifici monastici e la chiesetta anch’essa di pietra a vista e dalla volumetria leggermente più articolata di quella appena visitata. Al volume dell’unica navata si interseca un transetto appena accennato. sopra l’incrocio dei volumi ortogonali un tamburo circolare ospita una serie di finestre che illuminano l’interno tutto intonacato e dipinto di bianco. Nessun affresco, ma immagini sacre dipinte su tela ed appese alla parete di fondo….il muro sacro delle chiese ortodosse. Il frate barbuto che ci ha accompagnati all’interno e che mi ha fatto indossare il gonnellone, ci spiega che l’edificio risale al XIV secolo. Intuendo che siamo delusi per l’ assoluta mancanza di affreschi ci accompagna nella piccola e recente chiesetta interamente rivestita di immagini a colori squillanti eseguite ottanta anni fa da un monaco greco. Ci offre un bicchiere di acqua ed un dolcetto, quindi gentilmente si congeda da noi. Sono già le cinque del pomeriggio quando raggiungiamo Kraljevo …..troppo tardi per la visita al famoso monastero di Studenica che si trova ad una cinquantina di chilometri da qui. Decidiamo di fermarci per la notte nel centro abitato piuttosto dozzinale presso l’hotel Royal che raggiungiamo seguendo un taxi. Ceniamo benissimo al ristorante Zeneva, a qualche centinaio di metri dall’hotel. Stiamo benissimo nella terrazza sul fiume….la temperatura è perfetta ed il cibo appetitoso….certo le porzioni sono eccessivamente abbondanti. Deve trattarsi di una tradizione locale, così come le pietanze che scegliamo.


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04 Macedonia


12 Giugno 2009

KRALjEVO – KUMANOVO

Dopo il temporale di ieri sera l’aria fresca ed il cielo leggermente nuvoloso ci accompagnano alla visita del primo edificio storico di oggi, la basilica di Zica che si trova a pochi chilometri da Kraljevo, sulla statale 22 in direzione Sud. Il centro monastico del XIV secolo occupa la cima di un promontorio e si impone sul paesaggio per via del cromatismo acceso dell’edificio principale. La chiesa è di un rosso sgargiante mentre le mura che circoscrivono il sito sono di pietra a vista. Un altro piccolo santuario di colore bianco è addossato alle mura. Varchiamo il muro di cinta attraverso la grande porta sormontata da una torre difensiva a pianta quadrata…..una lunetta mosaicata ritrae Cristo su fondo oro qualche metro sopra le nostre teste. Oltre il muro di cinta una torre rossa segna l’ingresso alla basilica che riprende la tipologia classica a navata unica suddivisa trasversalmente in due ambienti collegati ed un accenno di transetto nell’aula che contiene le immagini sacre. Quest’ultima è coperta da un tamburo poligonale sul quale si aprono le finestre, ancora più in alto la cupola. Gli affreschi che rivestono le pareti sono piuttosto recenti ed a tinte forti. La cura del giardino è da manuale…..qua e la un tempio circolare o una fontana interrompono il verde acceso del prato all’inglese ed i colori delle aiuole fiorite o degli alberi da frutto. Proseguiamo ancora sulla strada sinuosa che serpeggia nel fondovalle fino a raggiungere, dopo una quarantina di chilometri la deviazione che ci porterà al famoso Monastero di Studenica, il più antico di tutta la Serbia. Sfilano ai lati della strada gli alti covoni di paglia come da noi non se ne vedono più da decenni….quelli con il palo di legno che spunta in alto. Incredibilmente protetto da una cinta muraria ellittica di pietra a vista nel cui perimetro trovano posto un paio di torrette difensive a pianta quadrata, il monastero rende bene l’idea di quanto fosse importante nel XII secolo la difesa della fede. Entrati all’interno della cinta muraria ci troviamo di fronte alla bellissima chiesa della Vergine parzialmente rivestita di marmo bianco. Altre due chiese più piccole sono sorte all’interno dello stesso complesso in epoche leggermente diverse. Il tutto ha un sapore di grande raffinatezza architettonica frutto delle rivisitazioni susseguitesi nel corso dei secoli. Un paio di giovani monaci dai capelli scuri e lunghi raccolti in una coda di cavallo si muovono veloci lungo il vialetto, alcuni turisti mangiano le ciliegie raccogliendole dai rami più bassi di un ciliegio che per la mole sembra secolare…..ed una serie di civili preposti al controllo delle chiese ed alla vendita di souvenir. Insomma non siamo riusciti nel corso della visita a ritrovare quel sapore di autentica semplicità che ci aveva così colpiti in quel primo monastero di Sretenje….dove i monaci facevano manutenzione agli edifici al servizio della produzione agricola e la suora era gentilissima e sorridente con i suoi occhioni azzurri e le guance rosa. Eppure questo di Studenica è il più famoso monastero serbo. Torniamo verso Kraljevo e poi puntiamo su Krusevac, altro luogo nel quale dovrebbero essere presenti edifici storici di pregio….ma la guida non ne parla e la carta stradale ci da un paio di false indicazioni, quindi ci dirigiamo senza indugio verso Nis e poi verso la Macedonia, ricca di bei paesaggi e di siti storici da cartolina. Al paesaggio boscoso della Serbia si succede quello più pianeggiante della nazione nella quale entriamo tra i troppi cani abbandonati in frontiera. Sulle strade circolano molte auto d’epoca tra cui le bellissime 600… che ingolosiscono Vanni. Ci fermiamo pochi chilometri dopo, nella cittadina di Kumanovo, dove la maggiore povertà macedone salta all’occhio con evidenza. Nessuno, a parte i più giovani, parla inglese, nemmeno la simpatica signora dell’hotel Hill’s dove occupiamo una camera che definiremmo dozzinale, ma che qui si intuisce sia stata arredata per essere una sciccheria.

13 Giugno 2009

KUMANOVO – SKOPJE

La camera è inondata dal sole al risveglio e le ampie finestre inquadrano i prati spalmati sui pendii che circondano la città. Per non rischiare di sbagliare strada seguiamo un taxi fino al primo obiettivo di oggi a circa 15 km da qui…..la bellissima chiesa bizantina di Sveti Gorgi. Risalente ad un periodo compreso tra l’ XI ed il XIV secolo, si erge con la sua volumetria complessa, al centro del prato di quello che sembra lo spartitraffico di un piccolo borgo piuttosto anonimo. Le colline sono lontane e brulle, quindi ci concentriamo sul gioiello che vediamo di fronte a noi entrando attraverso il cancello arrugginito. Arriva immediatamente il custode….sciatto e di mezza età, la maglietta rossa che sembra usata da giorni, non parla inglese ma conosce un paio di parole in Italiano, quanto basta per farci capire che se vogliamo fotografare la chiesa dobbiamo sganciare 17 €…..una piccola fortuna considerando che è quanto abbiamo speso ieri sera per la nostra cena al ristorante. Il vantaggio è che potremo scattare foto anche agli interni….cosa proibita ovunque. Naturalmente accettiamo. L’edificio ha la volumetria compatta, articolata in alto da diverse torrette poligonali con linea di gronda ondulata. Le superfici dei tamburi hanno feritoie circolari che lasciano entrare fasci di luce che illuminano le piccole cupole tutte affrescate con dipinti dai colori ancora vivi anche se antichissimi. Due strette navate laterali accompagnano quella principale verso l’abside, chiuso dal muro che accoglie le immagini dell’iconografia ortodossa. Affascinata dalla bellezza degli affreschi ed in particolare da alcune figure, forse vescovi, mi scateno a scattare foto ai loro mantelli bianchi ornati con croci nere…..fino a farne il mio soggetto preferito. Teste di angeli con aureola si susseguono sugli intradossi delle arcate, dipinti con una maestria che ci incanta. Finalmente libera di scattare mi dedico ad un reportage da manuale…..mi sento come dentro uno scrigno pieno di gioielli. Quando usciamo di nuovo la nostra attenzione va alla texture muraria costituita da fasce alternate di pietre e mattoni posati a formare disegni geometrici piuttosto accattivanti…..alcuni elementi di argilla sono stati appositamente concepiti a forma di X per creare effetti di chiaroscuro in facciata. Bifore di pietra incorniciate da archi in mattoni, torrette, cupole ed una meravigliosa esplosione di affreschi all’interno…..gli elementi dell’architettura sacra bizantina sono tutti qui, composti in grande armonia. Lasciamo la magnifica Sveti Gorgi e proseguiamo il viaggio attraverso le colline che vanno sempre più rinverdendosi… siamo in avvicinamento a Kriva Palanka nelle cui vicinanze, nascosto tra le pieghe delle colline divenute improvvisamente boscose, troviamo il monastero di Sveti Joakim Osogovski che, a colpo d’occhio, fa molto Lhasa. Alcuni edifici bianchi rifiniti in legno scuro si affacciano sulla stretta vallata ed un paio di chiese diverse tra loro per dimensioni e forma sorgono nell’unico spiazzo in piano. La più grande delle due è bianca e coronata in alto da dodici cupole che sembrano farla levitare verso il cielo, l’altra, piccolissima è tutta in pietra a vista. Il contrasto è molto d’effetto e di grande suggestione il loro proiettarsi nel paesaggio pittoresco di questa stretta valle boscosa che si apre verso l’orizzonte. Contrariamente alle nostre abitudini ripercorriamo a ritroso la E 870 fino a Kumanovo per poi proseguire verso la vicina Skopje, capitale di questa nazione dalla bellissima bandiera….un sole giallo su campo rosso. Non troviamo molte cose interessanti da vedere qui….per noi che dopo tante chiese avremmo voglia di qualcosa di diverso. Solo un bel ponte quattrocentesco di pietra a più campate sul fiume Vardar , il quartiere turco-albanese, praticamente un bazar a cielo aperto che però non conquista ed un vecchio hammam, enorme e bellissimo che ora ospita una galleria d’arte. La città insomma non ci stimola particolarmente ma ci offre il conforto di una bella camera all’Holiday Inn con vista sul fiume. Attorno all’hotel sorgono enormi edifici dal sapore retrò risalenti al periodo del regime comunista, i più recenti dei quali talvolta sfoggiamo volumetrie bizzarre come nel caso dell’edificio delle poste il cui corpo centrale può sembrare con uno sforzo di fantasia, un grande insetto. Quando dopo cena passeggiamo lungo il mall che costeggia il fiume, assistiamo allo scatenamento del sabato sera in capitale. Musica disco a tutto volume accompagna i nostri passi attraverso i disco bar che affollano uno dopo l’altro il lungofiume. Cuscinoni bianchi su poltrone di vimini, luci soffuse, minigonne mozzafiato e la musica giusta….gli ingredienti ci sono tutti. I casinò non mi hanno mai particolarmente attratta, ma decidiamo di andare comunque a quello dell’hotel, così, tanto per fare qualcosa di diverso dal solito. Per entrare ci sottopongono ad una vera e propria perquisizione, poi ci schedano con una fotografia e le generalità….sembra di entrare al pentagono ! Una volta dentro, pochi tavoli e musi lunghi, poca gente ed un buffet di croissant troppo gonfi. Esco immediatamente e lascio Vanni a perdere i suoi 100 euro.

14 Giugno 2009

SKOPJE – OHRID

L’ora tarda ci costringe ad una colazione in camera ed una partenza rapida. La distanza da coprire non è molta, ma Ohrid sembra contenere una serie di cose interessanti la cui visita non vorremmo dover rimandare a domani. Il paesaggio collinare piuttosto monotono ci accompagna fino alla perla della Macedonia che si affaccia sul lago omonimo, Ohrid appunto. Siamo a 600 metri sul livello del mare, ma nonostante questo ed il grande bacino d’acqua del lago, la temperatura sotto il sole delle due è sahariana. Dopo aver preso una camera al Vila Sveti Sofija, un quattro stelle decoroso ma con lampadine a basso consumo, ci incamminiamo sotto il sole cocente verso il punto di maggiore interesse della cittadina, ovvero una chiesetta edificata nel XIII secolo su una rupe a picco sul grande lago. Mentre la osserviamo seduti all’ombra di un cipresso, siamo più tentati da una bella gita in barca che dall’entrare nello spazio angusto e buio della piccola chiesa. Alla fine rimaniamo seduti a godere del fresco e dei suoni delle barchette a motore che si muovono sull’acqua …..anche solo questo è sufficiente perché la mente vaghi ed il piacere dell’essere si affermi. Affrontiamo la salita del ritorno tra molte lamentazioni e qualche piccola sosta che ci consente di osservare l’immagine pittoresca della chiesa sulla rupe ed il lago blu poco più in basso. Do la colpa della mia spossatezza alle camomille che mi rifilano tutte le mattine al posto del tè che chiedo…..quindi per carburare propongo una coca cola ghiacciata che beviamo in un baretto sul lago…..che meraviglia, finalmente un pò di caffeina! Un salto alla chiesa Sveti Sofija, la più bella nonostante i lavori di restauro, poi in taxi, dato che non abbiamo voglia di sfilare Asia dalla sua location nel tortuoso centro storico nel quale siamo riusciti ad incastrarla, raggiungiamo la seconda perla che si affaccia sul lago….il monastero Sveti Naum, ad una trentina di chilometri dalla città. Siamo nella punta Sud del lago, a pochi chilometri dal confine albanese, là dove le due sponde si incontrano a creare un paesaggio costiero estremamente pittoresco con brevi penisole ed una vegetazione rigogliosa sulle montagne che penetrano nell’acqua. La chiesa del ‘600 che sorge sul promontorio prospiciente il lago è incantevole, soprattutto il suo interno per la bellezza dell’impianto e degli affreschi che creano un’atmosfera magica, sospesa in un tempo che non è il nostro. Nel cortile che la circonda, un discreto numero di pavoni razzolano tra i turisti esibendosi in ruote clamorose……sullo sfondo, a perdita d’occhio, le acque profonde del lago ed i profili delle montagne che vi si immergono in una prospettiva densa della foschia del lago che le sfuma via via come in una stampa cinese…..o in un dipinto leonardesco. Rientriamo nel nostro appartamentino al secondo piano dell’hotel con mobili d’epoca e vista sull’abside in mattoni della chiesa Sveti Sopja….a proposito di chiese, Vanni nel corso della cena confessa di non poterne più…..come non capirlo, per una settimana non abbiamo visto altro!


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