20 settembre 2015

DILI – KEFAMENANU

Il Prof. ci accompagna nel breve tratto di strada che arriva alla frontiera. Stranamente in buono stato per lunghi tratti la consideriamo l’omaggio di Timor Est prima del nostro congedo, una rilassante passeggiata lungo la costa frastagliata con magnifici scorci sul mare e sulla spiaggia profonda per la bassa marea, i raccoglitori di mitili chini verso la sabbia e vecchi gozzi appoggiati su un fianco. Dopo Atabi la strada si spinge nell’entroterra montuoso fino a Batugade, la città di frontiera timorense che dista da Dili 120 km, per noi tre ore di auto. Entriamo nell’area di frontiera indonesiana attraverso il grande portale variopinto oltre il quale, sotto la pensilina sono disposti in fila i gate di controllo dei documenti. Tutto nella norma ad eccezione del militare in piedi accanto ad uno dei box con il fucile puntato ad altezza d’uomo nella nostra direzione, sta giocando a fare la guerra? ci chiediamo guardandolo perplessi e pur abbozzando fatichiamo a leggere il gesto come un segnale di benvenuto. Sbrigate poi le tediose formalità per ‘ingresso di Asia esibendo il Carnet de Passage che sfortunatamente non tutti i doganieri conoscono, ed impressi i timbri sulle paginette dei nostri due passaporti oltrepassiamo il gate entrando finalmente in Indonesia. Molti ci sorridono. Sono sorrisi belli, leggeri, quelli che fanno sentire fortunato chi li riceve. Non hanno vissuto l’offesa dell’aver subito una guerra loro che invece l’hanno fatta, quindi arricciano le labbra verso l’alto contagiando di buonumore. In questo mondo a parte, molto diverso da quello dal quale siamo arrivati, godiamo della piacevole sensazione di benessere che si complica di palme, casette di legno a palafitta e delle mangrovie che nascondono il mare. Nei brevi scorci intravvediamo le canoe di legno dei pescatori ed assistiamo alle sfilate di famiglie di maialini. Poi ci inoltriamo nel cuore del territorio che ora sembra persino più tropicale di prima, dove i pendii lievi hanno sostituito la durezza delle montagne più ad Est. Vediamo gli anziani indossare parei tessuti a mano, le signore portare secchi d’ acqua sulla testa ed i bambini spingere i carretti di legno carichi di taniche piene… deve essere l’orario dell’approvvigionamento dai pozzi ed i centri abitati si accendono di vita ed i fumi si alzano dai grill oltre i marciapiedi. Le risaie già in ombra sono ancora verdi ed alcuni lavorano ancora raccogliendo al fresco del tramonto. Arriviamo a Kefamenanu al tramonto, appena in tempo per trovare la disponibilità di almeno una delle tre camere superior al Live Ro Hotel. Non avrei mai immaginato che la business potesse avere il bagno così incrostato di sporco e non funzionante, il wc senz’acqua in cassetta e le chiazze rosse sul lenzuolo. L’igiene sembra non essere necessaria qui dove pochi comprendono e parlano inglese e dove gli orari di apertura e chiusura del ristorante coincidono. Fuori invece ci sono la vita e la povertà oltre ai dolcetti squisiti dell’emporio sull’altro lato della strada.

21 settembre 2015

KEFAMENANU – OELOLOK – OINTASI

La giornata inizia con un discreto elenco di luoghi da visitare tra cui la visita a Oelolok a soli 32 km di distanza da Kefamenan che raggiungiamo con una breve deviazione dalla strada principale che porta a Kupang. Il nostro interesse per Oelolok non è solamente legato agli edifici tradizionali rimasti immutati grazie alla recente politica di conservazione delle sue radici storiche. Oelolok è anche un villaggio di tessitori e le belle sciarpe e parei Tais sono una tentazione irresistibile. E’ da poco passato il mezzogiorno quando in auto percorriamo la breve strada ad anello che distribuisce il piccolo centro abitato, e’ molto caldo ed il villaggio è silenzioso e deserto. Non resta che proseguire a piedi per vedere se qualcuno si mostra ed infatti poco dopo all’ombra di una delle tettoie di paglia incontriamo la filiforme signora anziana ricurva sul suo telaio a terra. Sembra averlo usato durante tutta la sua vita. Seduta sul pavimento di pietre levigate trattiene con i piedi il bastone di legno sul quale sono annodati i fili tesi dell’ordito. Vi si muove sicura lanciando la spola attraverso i fili dai colori sgargianti che divide in gruppi con una sottile bacchetta di bambù. Sta seguendo lo schema disegnato su un foglio ingiallito ed ormai logoro dove sono tracciati i disegni tradizionali che si evidenzieranno come fossero ricamati. Fa finta di essere sorda per non rispondere alle domande che suggerisco a gesti ad un paio di ragazzi del luogo che traducono. Spiego che vorrei acquistare una sciarpa Tais creata dalle sue mani ma lei non dà segni di vita. Di bambù sono anche le case, squadrate e con le pareti perfettamente lisce per la particolare lavorazione delle pertiche tagliate in listelli di pochi centimetri ed accostate. Accanto ad ogni abitazione sono state costruite ampie tettoie circolari sostenute da quattro grossi pilastri di legno ed il cui manto di copertura, fissato sulla struttura di legno, è costituito da grandi ciuffi di paglia rasata. Le tettoie definiscono le superfici d’ombra dove tessere, appendere le pannocchie, giocare o semplicemente oziare seduti sulle possenti panche di tronchi lucidi per l’uso. Anche qui come altrove siamo accolti con malcelata diffidenza, come il signore che seduto all’ombra ripone nel fodero il suo machete per poi eclissarsi oltre la porta di una delle case. I turisti devono averli nel tempo sfiniti. Intanto come api sul miele sono arrivati i bambini che attratti dalla macchina fotografica iniziano il consueto corteggiamento del vorrei ma non oso chiedere, timidi sorrisi che precedono l’assedio vero e proprio alimentato dal vedersi nel display. Il mistero legato alla riproduzione della loro immagine li fa ridere dei loro bellissimi sorrisi. Le imposte decorate con disegni colorati fanno della casa dell’anziana tessitrice la più originale, forse per il suo talento nell’accostare e creare geometrie e colori. Infine dalla porta decorata esce una giovane ragazza che le si accosta, ha il neonato avvolto in un tessuto a righe, ci guarda con i suoi occhi belli ma non sorride. Torniamo sulla strada maestra e proseguiamo inseguendo un appunto letto da Vanni qualche giorno fa ovvero che domani mattina a partire dalle 6.30 si svolgerà ad Ointasi il mercato settimanale. Saranno in vendita i prodotti artigianali portati dai villaggi limitrofi ed il momento migliore per vederlo è la mattina presto, quando le contrattazioni iniziano ed il mercato prende vita. Per evitare la levataccia decidiamo di andare ora deviando da Nikiki all’incrocio mimetizzato tra le case del paesino ed impiegando un’ora e mezza per percorrere i trenta chilometri di disastrata strada di montagna arriviamo senza riconoscerlo nel piccolo paese immerso nella rigogliosa vegetazione che ci ha accompagnati lungo tutto il tragitto. Avanziamo incerti, senza individuare l’area dove si svolgerà il mercato, ma Vanni che è certo di trovare una banca qui in mezzo alla foresta infine la trova allontanando definitivamente il dubbio di non aver ancora raggiunto l’obiettivo. Ferma di fronte alla banca approfitto della posizione eretta finalmente riconquistata per fare due chiacchiere con l’impiegato mentre attorno a noi si sono radunate le persone che pur non capendo una parola guardano curiose quello che deve sembrare loro un film muto. Poi ridono ascoltando il racconto dei nostri viaggi tradotto dall’impiegato che si pavoneggia e si preoccupano sapendo che in paese non esistono stanze disponibili dove poter dormire. Infine accettiamo senza esitare il generoso invito di Jimmy che dopo aver accompagnato Vanni alle poste si offre di ospitarci per la notte. Prende così inizio il piacevole pomeriggio insieme e dopo aver fatto la spesa per la cena passando da una bancarella ad un negozietto, da un sorriso ad un altro, dalla mano rugosa di una anziana signora in pareo a quella forte di un signore con il rossetto, riempiamo un paio di sacchetti ed entriamo nella casa di Jimmy. Grande e colorata di un verde acceso è coperta da un ampio tetto di lamiera ondulata più alto dei muri sottostanti che garantisce la necessaria ventilazione naturale. E’ con noi Tony, l’inseparabile amico diversamente abile che ci conquista per la simpatia, la dolcezza, ed i suoi grandi occhi buoni. Infine siamo tutti impegnati, io a scrivere seduta sul letto del nostro ospite che sta preparando la cena, Vanni sta sistemando la tenda dove dormiremo e le birre si stanno raffreddando in frigorifero, la situazione è perfetta così come la cena condivisa. La conversazione accompagna le ottime tagliatelle al pomodoro, il riso ed i pomodori freschi ma la tipica salsa hot è decisamente fuori dalla nostra portata. Non dimenticheremo mai il piacere di questa serata che si svolge all’insegna del puro piacere di stare insieme, di conoscerci reciprocamente , così emozionante da strappare un momento di commozione a Jimmy, felice di ospitare per la prima volta nella sua casa noi viaggiatori stranieri.

22 settembre 2015

OINTASI – BOTI – KUPANG

Non è ancora l’alba quando il gallo salito sull’albero accanto alla tenda inizia a cantare emettendo suoni potenti. Sentiamo da lontano l’arrivo di camion carichi ed auto e poco dopo il mercato è già in fermento. Riconquistato il sonno ci svegliamo definitivamente verso le sei e trenta, poi dopo aver tergiversato in tenda fino a quando il calore diventa insopportabile, esco rinunciando alla comodità del materasso tutto mio. Vanni è già al mercato con Tony e Jimmy sta lavandosi lasciando scivolare sulle gambe l’acqua della vasca dietro casa raccolta dentro un mestolone di plastica. E’ un metodo molto usato qui, forse per non perdere il senso della quantità di acqua che si sta utilizzando. La colazione che Jimmy mi offre è pronta sul tavolo, il tè ancora fumante, una zuppa di verdure accompagnata dal riso e le pagnottelle dolci che sembrano ancora in lievitazione per il colore chiaro, la consistenza molle e l’odore di lievito ancora in fermentazione che esce dal contenitore aperto. Poi arriva il momento di andare tutti insieme al mercato. Alle otto l’atmosfera che vi si respira ha il sapore di un evento del quale si sono perse le prime battute ed i venditori vestiti come da tradizione sembrano qui da sempre, da quel passato remoto che risale alle origini della cultura animista timorese. Le signore indossano l’ikat, una gonna costituita da cilindro di tela variopinta tessuta a mano, fermata in vita con una cintura di stoffa. Il capo è coperto con il sarong, un pareo leggero che avvolge lo avvolge mollemente. La maggior parte dei prodotti in vendita non sono dissimili da quelli di altri mercati, montagnole di sale fino, le verdure che ognuno ha raccolto nel proprio orto a giudicare dalle quantità in alcuni casi molto ridotte, foglie di tabacco e molto altro, compresi quelli estremamente vari che noi in generale bolliamo come made in china. I prodotti locali saltano subito all’occhio perché mai visti prima e per la stranezza del loro utilizzo del quale ci parlano i nostri amici. I semi di Betel vengono raccolti da una particolare varietà di palma e sembrano grandi olive verdi, servono a rinforzare i denti e quando masticati danno un leggero senso di ebbrezza. A contatto con la saliva si tingono di rosso acceso che colora denti, labbra, lingua e tutto ciò che ne viene in contatto. Il loro effetto eccitante si esalta se associato alla polverina bianca del Kapur venduta contestualmente e confezionata in piccoli pacchetti trasparenti ed alle foglie Sirih Pinang che sembrano fili d’erba. Per questo motivo molti dei presenti sembrano avere un rossetto abbondante e sbavato come quello dei clown. Vanni mi viene incontro sorridente, come sempre ha notato una cosa molto particolare se non unica, i carretti si fanno largo tra la folla grazie a due pezzi di lamiera fissati alla base che fatti strisciare sull’asfalto emettono un rumore graffiante efficace quanto un campanello. Poi mentre camminando tra la folla vedo lui, un signore old stile che vende i due Ikat appoggiati sulla sua spalla, sono a righe ed hanno magnifici colori. Mi chiede una cifra spropositata rispetto ai prezzi correnti ed anche Jimmy sconsiglia l’acquisto per il quale non c’è modo di trattare. Eppure con il passare del tempo il desiderio cresce fino a farmi considerare del tutto legittima la richiesta di un milione di Rupie ovvero di settanta dollari per ognuno. Uno sproposito, inizia così la ricerca dell’introvabile venditore ed a nulla valgono le informazioni chieste agli altri venditori da Jimmy. Inizia la leggera sofferenza che mi accompagna fino all’ingresso nella Business Room del Re di Boti dove di fronte al costo radoppiato di quegli stessi parei il pentimento raggiunge il top per poi smorzarsi completamente. Portiamo al re l’omaggio dovuto, quello che da sempre è stato donato a quelli che come lui avevano un regno seppur piccolo qui a Timor. Semi di Betel, sale e le magiche foglie, il mix che garantisce lo sballo. Questo re si chiama Namah Benu, il suo regno che conta trecento anime è l’ultimo rimasto sull’isola perché nascosto dalla foresta ai colonizzatori olandesi ed ai cacciatori di teste. Lo raggiungiamo percorrendo la strada non asfaltata, scoscesa ma in buono stato che si snoda per diciannove chilometri da Ointasi. Oltre un vialetto immerso nella vegetazione, sotto la tettoia accanto alla sala del trono il re e la famiglia ci accolgono offrendoci in segno di ospitalità il caffè accompagnato da fette di banana secca e patate dolci lessate. Siamo seduti su sedie di plastica a guardare le foto appese alla parete ed ascoltiamo la traduzione stentata di Jimmy e Tony che nonostante la vicinanza al loro paese faticano a capire il dialetto del regno. Osserviamo le loro bocche tingersi di rosso e poi anche le labbra sulle quali aiutandosi con il dito spargono il liquido in modo sommario. Nel frattempo abbiamo visto lo spazio interno della casa con il trono di legno, le poltroncine di plastica sfondate e tante foto appese alle pareti tra cui quella che ritrae il re che lo ha preceduto accanto al presidente indonesiano che conferma la sua importanza della quale avevamo dubitato ed il riconoscimento del regno di Boti. Siccome la modestia non si addice ad un re, Namah dice di essere conosciuto in tutto il mondo e Vanni che per modestia non è da meno vuole essere fotografato accanto a lui in tutte le situazioni possibili, infine scatto così tante foto da mandare in sofferenza il re che iniia ad avere l’aria di chi non vede l’ora di congedarsi da noi visitatori troppo esigenti. Usciti dalla casetta di rappresentanza ed attraversata nuovamente la tettoia gironzoliamo all’ombra di palme ed alberi tra le ordinate case di bambù, le ampie tettoie circolari e le cucine a forma di pagliaio accessibili in ginocchio attraverso un’apertura alta non più di ottanta centimetri, il tutto immerso nella vegetazione rigogliosa del regno. Terminato l’aspetto rappresentativo della visita veniamo invitati a firmare il registro delle visite ed a pagare diecimila rupie a testa. acquistiamo anche un bel cavallo con cavaliere scolpito nel regno scuro per quella che nel tempo è diventata la nostra collezione. Torniamo ad Ointasi dopo una sosta fortemente voluta dai nostri amici alla bancarella che espone bottiglie piene di birra locale bianca, dolciastra e che fa volare, dicono. Il commiato è commovente ma veloce perché siamo quasi fuori orario per raggiungere Kupang prima che cali il buio. Ci aspettano centotrenta chilometri di strada di montagna ed un numero imprecisato di centri abitati da attraversare prima di raggiungere il capoluogo dove infine arriviamo nella luce fioca dei lampioni, l’Hotel Swiss Bel Inn Kristal ci accoglie con una bellissima vista sul mare che osserviamo ora in relax pensando a questa giornata faticosa ma bellissima.

23 settembre 2015

KUPANG

Rimango in camera a lungo senza fare nulla, mi piace avere il tempo per assaporare il piacere del viaggio, e mi piace ogni tanto non dovere parlare o rispondere, dedicandomi a quella che chiamo solitudine attiva. Scrivere e soddisfare qualche curiosità sul web, cercare le immagini dei luoghi che potremmo vedere, le possibili sistemazioni, un nome dimenticato o allettanti fuori programma in arcipelaghi non troppo sfruttati, piccoli paradisi nascosti tra le diciassettemila isole indonesiane. Il Karimunjawa National Park ed il meraviglioso arcipelago Raja Ampat, lontani ma raggiungibili in aereo potrebbero diventare un bel regalo di fine viaggio. Vanni ha incontrato Pius poco dopo le nove, sbrigheranno insieme gli impegni in elenco, il più importante dei quali è raccogliere informazioni al porto per l’imbarco di domani. Sono le sue prime ore di lavoro come interprete e mentre li immagino insieme mi chiedo come se la caverà nel soddisfare oltre alle normali incombenze anche i capricci del mio amato consorte. Pur non avendolo ancora incontrato sono perplessa le premesse infatti sembrano allontanarlo dal mio stereotipo di compagno di viaggio ideale con il quale avere un rapporto di complice leggerezza. Pius è rientrato a Kupang solo un paio di mesi fa dopo cinque anni di formazione sacerdotale a Roma. Insieme potremmo essere il diavolo e l’acqua santa.
Sono bastati i primi cinquanta metri percorsi nel pomeriggio lungo la strada che corre parallela al mare per pentirmi di aver varcato la porta dell’hotel. L’idea era quella di raggiungere il Lavalon per un aperitivo al tramonto che avrei condiviso volentieri telefonando ai ragazzi. Un pretesto per dare un’occhiata alla città e capire perché Kupang non rappresenti una tentazione per i viaggiatori che la raggiungono solo per poi ripartire in nave o in aereo. In pochi minuti la risposta è arrivata ed il localino è diventato irraggiungibile per la sgradevole sensazione di vulnerabilità che mi hanno trasmesso i commenti urlati, le risate grasse e perché no, le strane manovre dei Bemo che mi hanno volutamente sfiorata un paio di volte. Sono minibus caratteristici per le grandi immagini serigrafate sulla carrozzeria e le decine di antenne che spuntano dal tettuccio. Dal portello laterale sempre aperto si sporge in genere un ragazzino che trattiene nella mano libera un pacchetto di banconote ed accalappia i clienti dalla strada per portarli a destinazione. La sensazione di camminare in una città abitata da scimmiette dispettose e moleste mi fa desistere e dopo un paio di chilometri decido di invertire la rotta. Il sole è già basso e Kupang è per pericolosità seconda solo a Jakarta, meglio non rischiare. Raggiunto Vanni andiamo insieme al vicino Lounge Terrace, per una piacevole serata di programmi e chiacchiere, musica e Margarita.


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